INDICE
INTRODUZIONE. LE BASI SCIENTIFICHE DELLA MEDICINA
allegati
articoli pubblicati su riviste mediche:
A) L'ERRORE MEDICO
B) LA SALUTE COME BENE COMUNE E IL WELFARE DI PROSSIMITÀ
Questo scritto non entra nella querelle tra medicina alternativa e medicina ufficiale, tra retorica antiscientifica e antitecnologica e retorica scientista e tecnicista ma intende recuperare pregi e difetti, vantaggi e limiti di ciascuna delle posizioni nel rispetto delle scelte personali. E' solo in una accettabile sintesi, in una visione a 360 gradi, che si può rendere un buon servizio a chi si trova in queste situazioni difficili.
Sempre più frequentemente abbiamo visto con i nostri occhi, sentito nel nostro cuore o vissuto nelle nostre carni l'angoscia per una diagnosi che poteva essere o era infausta per noi stessi o per qualche persona cara. Quello che rende la situazione intollerabile è il senso di naufragio, l'essere catapultati in una terra sconosciuta, il non sapere cosa fare e come muoversi.
Sull'angoscia che dà una cattiva notizia, niente si può fare tranne l'essere certi che questo è un momento che prima o poi se ne va; l'angoscia è sostituita gradualmente dall'accettazione e subentra una reazione positiva, all'inizio mista a rabbia che ci permetterà di affrontare questa nuova situazione in maniera adeguata. Il problema sorge se questo processo di auto-consapevolezza si inceppa e l'esperienza, in qualsiasi modo finisca, viene vissuta unicamente come un annientamento. Si sopravvive al cancro anche con una nuova consapevolezza.
Sul cosa fare in queste situazioni e sul come farlo invece molto si può dire. Queste righe vorrebbero fornire un piccolo faro nella tempesta per quanti si troveranno in questi frangenti, per dar loro un mezzo in più per orientarsi fra la miriade di opzioni e di scelte che si presenteranno. E' un libro per tutti, pazienti, familiari, amici, operatori sanitari, medici. La sua funzione è di ampliare gli orizzonti partendo da fonti inoppugnabili ma spesso poco valorizzate o poco reperibili in forma organica.
gennaio 2017
Le copie cartacee si possono prenotare dal sito contattando l'autore dalla sezione "Contatti" .
Parte del ricavato sarà devoluto alle associazioni di volontariato che si occupano del tema.
Sono graditi i suggerimenti.
Un anno dopo la laurea il dott. Luciano Mignoli è medico responsabile di un ospedale che serve 140.000 abitanti in Mozambico. Nel 1983 si specializza in Igiene e Medicina Preventiva, indirizzo Sanità Pubblica nel quale approfondisce l'epidemiologia. Completa un corso quadriennale di psicoterapia ad indirizzo analitico e un corso seminariale annuale sul Counseling sistemico. Come medico di famiglia da più di 30 anni segue numerosi casi di pazienti oncologici. Ha scritto numerosi articoli pubblicati su riviste mediche sull'umanizzazione della medicina e sulla relazione medico-paziente. Ha partecipato per un periodo all'attività del Tribunale dei diritti del malato. Nel 1994, due medici di famiglia e due dirigenti della ULSS di una cittadina del Veneto pubblicano uno studio pilota sulle prime esperienze di assistenza domiciliare integrata (ADI) ai malati oncologici su Difesa Sociale (17). L'autore era uno dei due medici di famiglia. L'anno dopo lo stesso autore come sindacalista di uno dei sindacati dei medici di famiglia, partendo dallo studio suddetto, firma con altri nel contratto integrativo regionale la formalizzazione dell'ADI per tutta la regione Veneto. La successiva convenzione nazionale per i medici di famiglia la riporterà integralmente. E' stato per molti anni animatore, tutor e spesso docente per la medicina generale. E' stato toccato negli affetti più volte dall'argomento in questione.
Esiste sulla morte e nella sua prossimità un senso di pudore e di negazione che non è arcaico come quello sul sesso ma invece è paradossalmente moderno. Un frutto avvelenato dell'alienazione e della mercificazione degli eventi naturali e dei sentimenti prodotto dalla nostra organizzazione sociale.
Una parte di colpa è a carico di una medicina aggressiva che promette salute eterna e quasi immortalità, facendo passare come indispensabili il check-up annuale, la frequentazione assidua degli ambulatori medici e il fare tutti gli esami possibili, per lo più inutili e costosi. Tutto questo favorito dalla copertura di nuove mutue integrative che sopravvivono solo perché esiste il sistema sanitario nazionale; da sole infatti avrebbero i cordoni della borsa stretti come negli USA, dove si pagano premi spropositati per coperture parziali. La malattia è affrontata come un fattore produttivo che incrementa il Pil e la tendenza è quella di offrire il miglior servizio al costo più ridotto in un regime di libertà di scelta, che nell'ambito sanitario, incoraggia l'incoscienza producendo così l'esatto opposto del prendersi cura realmente della propria salute. Innumerevoli sono gli studi sugli effetti avversi dell'over-treatment ovvero di diagnosi, terapie, interventi inutili o prematuri. Illudendosi sulle potenzialità della medicina, ci si fida di più della prediagnostica che dei messaggi che ci invia il nostro corpo arrivando così all'effetto opposto . Non si possono fare infatti PET o TAC una volta all'anno, una Tac corrisponde alle radiazioni di circa 700 radiografie normali.
Altro punto critico è la credenza che la medicina si muova su regole matematiche e scientificamente fondate. Un'opinione questa solo parzialmente valida. Qualche tempo fa, in uno studio su "Lancet", una delle riviste scientifiche punto di riferimento per la medicina, venne rilevato che quasi il 70% degli articoli pubblicati non era corretto dal punto di vista statistico, quindi aveva una credibilità dubbia.
Si potrebbe affermare quindi che le basi scientifiche della medicina abbiano i piedi d'argilla o meglio che la medicina sia sempre in cerca di uno status scientifico più preciso. La situazione adesso è solo un po' migliorata, ora nelle riviste scientifiche si va affrontando il problema del conflitto di interessi, che induce i medici a studi compiacenti verso i farmaci e gli interessi delle industrie farmaceutiche. Parzialmente utile, ma necessario, è il ricorso alla EBM (medicina basata sulle evidenze), nella quale viene classificata la valenza dello studio a seconda della forza statistica, ma è impossibile verificare tutti gli studi che non vengono pubblicati o sono interrotti perché non rispondenti agli scopi dei ricercatori (e agli interessi delle case farmaceutiche). Una sopravvalutazione ingiustificata nell'ambito medico viene data alle Consensus Conferences (gruppi di specialisti che decidono a tavolino comportamenti e parametri che secondo l'EBM vengono classificati nella lettera C, equivalenti a ipotesi non dimostrate). Queste Consensus Conference abbassano o alzano i parametri clinici e laboratoristici a loro piacimento o su input dell'industria farmaceutica, senza nessun riferimento scientifico ma solo sulla base di opinioni di esperti spesso non indipendenti.
Questa presunta onnipotenza però è un' arma a doppio taglio che si ritorce sui medici; le cause per risarcimento sono tali e tante che le assicurazioni per l'attività professionale medica sono aumentate fino ad essere insostenibili. Corsi di specializzazione, esempio di chirurgia, sempre più spesso vengono disertati per la grande responsabilità medico-legale che comportano; in USA, si è arrivati al punto che ogni intervento chirurgico viene filmato in ogni suo momento a scanso di contestazioni. Le promesse non mantenute della medicina scatenano inevitabilmente l'aggressività delle persone.
Ma non tutta la responsabilità è dei medici.
Primo Levi, scrittore ebreo di “Se questo è un uomo”, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, raccontava di un episodio successogli colà che ancora gli provocava sofferenza e rimpianto. Nel clima di disperazione esistente una donna del campo femminile tentò di toccargli le dita attraverso la rete che li divideva. Era un gesto che richiedeva solo un contatto umano, ma egli di fronte a questa improvvisa richiesta ritirò la sua mano. La vita sempre parallela alla morte e la lotta per la sopravvivenza nei campi di sterminio sicuramente indurisce le persone ma lo scrittore si era accorto che i nazisti avevano fatto di più che minacciargli la vita: gli avevano ucciso l'anima e l'umanità. Era ancora vivo, ma erano riusciti ad ucciderlo lo stesso. La sconvolgente verità era che volevano ucciderli due volte. Le fedi, non gli ideali i quali si possono ancora discutere, tendono sempre anche ai giorni nostri a sopprimere anima ed umanità, pericolose fonti di dubbio, (i nostri dubbi aiutano a capire meglio quelli degli altri). Il dubbio è l'unico ad intralciare il delirio di onnipotenza e ineluttabilità di questi cavalieri del nulla e se costoro riescono ad annientare il sentimento dell'umanità anche negli avversari hanno già vinto la loro battaglia.
Lo scrittore si suicidò molto dopo la fine della guerra con questa ferita mai rimarginata.
Franca era una ragazza che abitava nella mia stessa strada. Ci conoscevamo di vista. Anni dopo, l'ho reincontrata nei pressi di casa mia. Sapevo che aveva avuto un tumore con delle metastasi ossee ma lei ostinatamente passeggiava da sola, zoppicando, per tenersi in movimento. Fermarsi a salutarla e fare due chiacchere era ormai una consuetudine. Non si parlava di malattie ma la sua era sottointesa, si parlava dell'influenza positiva che potevano avere queste brevi passeggiate sul corpo e sull'umore. Una mattina, andando in bicicletta a prendere il giornale, la incontrai. La salutai distrattamente preso dalle mie piccole faccende quotidiane. Girando la testa avevo visto che mi stava guardando quasi aspettando perché mi fermassi un attimo a parlare, ma avevo fretta. Dopo qualche giorno comparve un'epigrafe col suo nome.
L'INADEGUATEZZA DEL PENSIERO OCCIDENTALE
Viviamo la nostra vita come un sogno, gesti automatici, abitudini consolidate, giriamo vestiti di un'armatura per proteggerci dal mondo, la nostra mente è piena solo di piccole miserie quotidiane e problemi insignificanti o peggio siamo succubi del mito dell'affermazione, dell'arrivismo, tutte indotte dal pensiero unico predominante. Spesso non ascoltiamo nemmeno ciò che ci suggerisce il nostro corpo. Leggiamo libri di sesso e d'avventura di scrittori che non si sono mai alzati dalla loro scrivania. Guardiamo trasmissioni in cui sono recitati sentimenti e dispute a pagamento. Con il filtro cibernetico del computer riusciamo a fare e a dire cose che altrimenti non faremmo e non diremmo di fronte alle persone in carne e ossa. Ma non è tutta colpa nostra . Metà della civiltà occidentale si è organizzata col mito di Machiavelli, "il fine giustifica i mezzi", tutti i fini e tutti i mezzi. Con questo metodo si è ottenuto solo qualche risultato immediato in cambio di un futuro ancora più problematico o addirittura tragico; la storia ce lo ripete inascoltata. Quale impatto sulla cultura occidentale potrebbe avere il venire a conoscenza che il Macchiavelli (secondo Althusser) non pensava ciò, ma lo descriveva per denunciarlo in tono ironico irridendo le modalità disinvolte con cui era vissuta l'etica e la morale del Cinquecento? Uguale fu per Hobbes nel 1600. Temendo di diventare il bersaglio della vendetta dei potenti teorizzo un altro pilastro fondamentale per giustificare una società che stava diventando sempre più mercantilista e competitiva: "homo hominis lupus". Egli nel "De Cive" elencava i postulati certissimi della natura umana: il primo di questi sostiene che vi è una bramosia naturale per cui ogni uomo pretende di godere da solo dei beni comuni; il secondo afferma che l'uomo tende naturalmente a sfuggire alla morte violenta. A quel tempo si pensava che le malefatte si scontassero solo nell'aldilà, per questo il mercato delle indulgenze era florido, mentre oggi è evidente che i due postulati sono in antitesi. L'uno esclude l'altro per la legge di circolarità, un atteggiamento così predatorio prima o dopo è solo foriero di ritorni negativi . La guerra, l'attività predatoria o competitiva, modus operandi del funzionamento di questa civiltà, sono portatrici solo di brevi e nefaste accelerazioni di ricchezze personali, più che di progresso per tutti . Sin dalla preistoria, i gruppi umani e le società più evolute che meglio resistevano ai momenti di crisi e che più hanno dato alla storia dell'umanità erano cooperative e non competitive. Agli inizi del Seicento i gesuiti in Sudamerica sperimentarono forme di comunità indigena dette Riduzioni dove tutto veniva diviso con tutti e ognuno traeva vantaggio del lavoro di tutti, questo portava cibo, istruzione, benessere a tutta la comunità. Le Riduzioni verranno messe a ferro e fuoco dai coloni spagnoli e portoghesi, perché troppo efficienti e concorrenziali addirittura a confronto con le produzioni degli schiavi. Ma questo è sottaciuto deliberatamente.
Coloro che diventano deboli vengono ancora gettati metaforicamente giù dalla rupe Tarpea.
I malati, i vecchi sono fuori dal circuito della produzione e diventano un peso per le finanze dello stato e delle famiglie, non lo si dice apertamente, anzi, lo si nega ma quando si mette mano al welfare per ridurre le tasse è là che si taglia. Si sceglie di depotenziare il vecchio sistema di sicurezza sociale perché troppo costoso, invece di discutere di un nuovo welfare di comunità/prossimità che allarghi e potenzi le prestazioni per i più fragili; si preferisce continuare a discutere su come sforbiciare il welfare nazionale, senza perdere consensi elettorali, piuttosto che dotarsi di una visione strategica del problema dell'invecchiamento ineluttabile della popolazione e dell'aumento delle malattie cronico-degenerative. Ma non stiamo perdendo così la nostra umanità? Pensiamo che sacrificando le relazioni in tal modo dopo i nodi non vengano al pettine? Che i conti da pagare in tutti i sensi non siano più alti? Riteniamo il diritto durevole alle cure superato e sostituibile con una carità aleatoria?
Ma torniamo a noi. Alle esperienze personali.
L'uomo soffre per la sua brama di possedere e far proprie per sempre quelle cose che per essenza sono effimere. Prima fra tutte, la sua stessa persona, che rappresenta per lui il mezzo di isolarsi dal resto della vita, il castello in cui può ritirarsi e da cui può affermare se stesso contro le forze esterne . Egli crede che questa posizione fortificata e isolata sia il mezzo migliore per raggiungere la felicità; gli permette di combattere contro il cambiamento, di cercare di tenere per sé le cose che gli piacciono, di eliminare il dolore e di piegare le circostanze al suo volere (Allan W. Watts)(11). Come il nostro sistema nervoso, che alza le soglie di sensibilità per attenuare ogni stimolo neuronale fastidioso, piano piano la nostra vita sensoriale e affettiva si impoverisce e la nausea della noia ci pervade. Dopo la noia arriva la solitudine che non è altro che l'incapacità progressiva di sentire gli altri. Chi è più fragile si inventa e razionalizza dei progetti persecutori nei propri confronti, pur di evitare il momento bianco del vuoto. Cerca di convincersi che gli altri, anche se nemici, lo pensano e sente ancora di esistere grazie a questi pensieri.La sua scarsa elasticità mentale è tale che non riesce a riconoscere che ogni cambiamento porta sempre delle opportunità che potrebbero migliorare la sua vita affettiva e sensoriale. Invece che essere leggero e intuitivo dei contesti che si evolvono in proprio favore, li trascura, prefigurandosi una vita di rimpianti. Rifiuta l'avventura della vita per distrazione o per paura. Forse è già in parte morto dentro. L'abnorme utilizzo di calmanti e antidepressivi testimonia il problema.
Ma all'improvviso arriva sul serio la minaccia della morte.
La paura della morte è rivoluzionaria, antitetica al pensiero predominante, distrugge i luoghi comuni, azzera il controllo e la programmazione, rende gli uomini uguali e inutili i beni effimeri, può minare alle radici la nostra società in cui tutto diventa merce anche i sentimenti e le emozioni. Il pensiero occidentale risulta inadeguato ad affrontare il tema della morte.
E' questo uno dei motivi della sua esorcizzazione?
Alla notizia, una ridda di sentimenti ci sconvolge, ci si sente alla deriva senza approdi sicuri. Come reagiranno i miei cari, ai quali non vorrei dare alcuna pena ma sempre un'eterna e tranquilla serenità, gli amici, l'ambiente di lavoro? Questa malattia sconvolgerà economicamente la mia vita e quella della mia famiglia?
Gli americani scolasticamente dividono questo periodo in fase della disperazione, fase della negazione, fase della rabbia, fase della rassegnazione. Tutti sentimenti giusti da vivere appieno, che possono accavallarsi e rincorrersi. La voglia di normalità, della vita di prima è spasmodica. Come la voglia di fuggire da una battaglia che sembra al di sopra delle nostre forze, delle nostre forze umane e da soli. E' il momento della crisi, la crisi significa rottura, soluzione di continuità ma è anche una nuova nascita . Dalla crisalide nasce la farfalla .
L'uomo scoprirà il proprio io solo quando cesserà di identificarsi con la propria persona, quando non opporrà più resistenza al mondo esterno stando dietro il riparo delle proprie difese; insomma quando porrà fine alla propria ostilità, alle sue spedizioni di saccheggio contro la vita (11). E' necessario sostituire l'ostilità con la compassione (non il compatimento, ma il sentire se stessi e il mondo facendone veramente parte). Così scopre che l'io è più del suo proprio essere: esso abbraccia l'intero universo (Allan W. Watts 11).
Cosa significa scoprire se stessi? Significa saper mettersi compassionevolmente in relazione col mondo, aprirsi a nuove sensazioni ed emozioni. Vedere dove si aveva solo guardato, sentire dove si aveva solo udito. Quando la realtà ci piomba addosso, pronta a rubarci la nostra vita, il tempo assume un altro significato, ha più valore. Sentire il calore dei raggi del sole sulla faccia, il vento del disgelo che ci passa fra i capelli, lo sguardo di un animale, la presenza viva di una persona che ti passa accanto, il calore della pelle del tuo partner o la presenza attiva dei tuoi figli sono tutti segni di un nuovo modo di sentire le cose e il mondo. E' il risveglio. (Il tempo toglie il tempo da diceva una canzone). Alcuni saggi orientali restano chiusi in monastero tutta la vita per raggiungere questa consapevolezza. Le persone che si trovano improvvisamente a vivere con la minaccia di morte possono, se vogliono, raggiungerla in poco tempo.
Con la teoria della relatività si dovette abbandonare l'idea che vi fosse una grandezza universale chiamata tempo misurata da tutti gli orologi. Si scoprì che i tempi di due individui erano gli stessi solo se i due stavano fermi l'uno rispetto all'altro ma non se erano in movimento.
Poincarè distingue il tempo psicologico dal tempo fisico e sottolinea l'impossibilità di trasformare un tempo qualitativo (psicologico) in tempo quantitativo (fisico), in poche parole un momento vissuto intensamente può essere più significativo di un giorno. Bergson distingue il tempo della fisica, che è scandito dalle lancette dell'orologio, e il tempo nell'esperienza quotidiana che è il tempo dello spirito.
Alcuni esperimenti neurologici svoltisi in passato hanno realizzato che alcune sostante fra le quali LSD interagivano con il sistema serotoninergico (5-HT) provocando una diversa dimensione del tempo oltre che dello spazio. Il sistema serotoninergico (5-HT) inibisce il traffico ascendente attraverso la formazione reticolare, probabilmente per proteggere le strutture cerebrali dal sovraccarico di stimolazione derivante dagli stimoli sensoriali. La nostra percezione del tempo non è quindi oggettiva ma solo mediata da questo sistema 5-HT. Un motivo in più per non badare agli orologi.
Il partner caregiver è colui che si trova nella posizione più difficile. Egli è il più preoccupato del futuro affettivo, famigliare, economico e sociale che lo attende. Anche il presente non è facile, le geometrie specie quelle affettive famigliari e quelle sociali possono variare in questi casi. Ci saranno amici che saranno fieri di accompagnare chi ha la vita minacciata nel percorso da lui deciso, altri troppo fragili psicologicamente magari per esperienze precedenti che si allontaneranno.
Ma con il mutare dell'atteggiamento sociale verso la malattia oncologica, anche per la diffusione che ne fa ormai una patologia cronico degenerativa quasi al pari delle altre, muta anche la prospettiva di gestione e di comportamento dei percorsi personali e famigliari. Aumenta così il numero dei sopravvissuti al cancro che riferiscono di una resilienza (capacità di resistenza e adattamento) maggiore, rispetto ad altri che in passato preferivano adottare la strategia difensiva del silenzio sulla malattia . Questi pazienti sono in grado di utilizzare al meglio le reti di supporto istituzionali (medici, psicologi, psico-oncologi, operatori sanitari etc) e le reti di supporto sociale (amici, parenti, vicini, volontari, etc) (Holland 2002). Il livello di stress per il paziente e la sua famiglia è talmente intenso, infatti, che è difficile che si riesca a reggere questa situazione in solitudine. A livello interpersonale, la mancanza di supporti sociali è considerata la causa di stress principale. Questi supporti favoriscono l'attenuazione della condivisione quasi simbiotica che si instaura fra paziente e partner nel caso sia una coppia che affronti la malattia . Colpa e vergogna erano in passato conseguenza dello stigma che portava la parola cancro, come pure il timore di essere etichettati come deboli se si cercava aiuto (Holland 2002). I tempi sono cambiati e i vantaggi di accettare tutto l'aiuto possibile sono superiori alle possibili discriminazioni sul lavoro e nell'ambito sociale, che comunque possono essere gestite altrimenti. Un nuovo studio statunitense (fonte Cancer 2016) ha scoperto che le donne con pochi legami sociali presentavano un rischio del 43% più elevato di ritorno di neoplasia mammaria rispetto a quelle che erano socialmente ben inserite. Inoltre, le donne più isolate avevano il 64% in più di probabilità di morire per cancro al seno e quasi il 70% in più di probabilità di morire per qualsiasi altra causa nel corso dello studio rispetto alle donne con una ricca rete sociale.
Vi è un esperimento(…) il quale dimostra che anche gli animali dipendono per la vita e per la morte dalla loro immagine del mondo. Secondo i risultati di questo studio pare che dei ratti, che cadono nell'acqua e che nuotando un po' in giro stabiliscano che non vi è nessuna possibilità di uscirne, muoiano parecchio prima che sopravvenga la spossatezza fisica. Se invece il ratto viene tirato fuori dall'acqua, questo salvataggio porta ad un cambiamento decisivo della sua immagine del mondo. Ora, invece di rinunciare all'accorgersi della mancanza di vie d'uscita e di morire, quando l'esperimento viene ripetuto, il ratto continua imperterrito a nuotare in attesa del salvataggio fino ad essere completamente sfinito (Watzlawick 1980)
Le persone con forti relazioni famigliari e sociali presentano infatti una sopravvivenza maggiore del 50% rispetto a chi è privo di contatti e supporti esterni (Holt-Lunstad). Naturalmente di questi benefici ne godono anche i care-giver, che possono delegare a più persone momenti di questa gestione così complessa, recuperando così spazi di riposo fisico e psichico.
Le persone sposate hanno maggiori probabilità di sopravvivere a un cancro. E tra i single, gli uomini hanno il 27% in più di probabilità di morire in confronto con le persone in coppia, mentre le donne il 19%. A dimostrarlo è uno studio americano pubblicato sulla rivista " Cancer".
Singolari sono i risultati di una studio randomizzato in doppio cieco (cioè su 2 gruppi di pazienti ignari), pubblicato su una rivista prestigiosa, sugli effetti della preghiera remota verso i pazienti ricoverati in una unità coronarica. I risultati furono sorprendenti, i pazienti a cui veniva rivolta la preghiera avevano un miglioramento del 10% rispetto ai pazienti verso i quali non veniva indirizzata nessuna preghiera. Lo studio è stato contestato in più forme ma lascia aperta la questione di quanta influenza può avere sui malati il pensiero positivo della comunità che gli sta intorno. (1999 ARCH. Intern. Med. 159: 2273-2278)
La resilienza e il coping familiare sono le strategie adottate per gestire situazioni stressanti e dipendono da una serie di fattori pre- esistenti:
Questi caregiver informali sono stimati in Italia dall'Istat nel numero approssimativo di 9 milioni; queste persone seguono i malati oncologici ma anche persone inabili, grandi anziani e altre malattie invalidanti. In uno studio italiano (Giorgi Rossi Paolo e altri 2007) i caregiver erano per il 46% figli, per il 31% coniuge, per il 20% parenti o amici, per il 3% operatori sanitari in caso di ricovero nelle strutture protette, in maggioranza donne.
La presenza di un caregiver adeguato è conditio sine qua non per l'attivazione delle dimissioni protette, per ora sperimentali, ma per l'assistenza domiciliare integrata ormai diffusa in tutto il territorio nazionale.
L'adeguatezza a gestire questa situazione è valutata con questi parametri: 1) disponibilità e attitudine, 2) età: né troppo giovane né troppo vecchio, 3) vicinanza 4) stabilità psichica ( assenza di forme ansioso-depressive o altri problemi mentali), 5) disponibilità ad apprendere 6) capacità organizzativa. Un buon caregiver che si rivolga al medico o ad altri al momento giusto per le cose importanti e abbia buone capacità organizzative è un elemento indispensabile per garantire la qualità dell'assistenza sia per i medici di famiglia che per tutti gli operatori sanitari. Tenere nel proprio ambiente un malato grave infatti è il massimo della qualità della vita che si può offrire ad un congiunto o un amico ed è per questo che queste figure sono preziose e da preservare. Esse costituiscono il fulcro di ogni assistenza domiciliare. Il loro stato psichico e fisico deve essere attentamente monitorato dal personale sanitario coinvolto nell'assistenza sia ambulatoriale che domiciliare . L'umore depresso del coniuge o di un altro caregiver genera infatti un effetto negativo sulla persona da assistere che si trova così ad affrontare in solitudine la malattia. Anche un'eccessiva intrusione nelle scelte del paziente può determinare conflitto, depressione e ritiro in se stessi anche perchè oltre all'incertezza del futuro ci si deve confrontare anche con una modifica della scala dei valori e delle priorità da parte del paziente. La comunicazione aperta, orientata a risolvere i problemi, è l'elemento principe di resilienza all'interno di questa relazione,che volenti o nolenti, sta cambiando. Il caregiver deve essere stimolato a prendersi spazi di riposo e di libertà fuori dai problemi e ad organizzarsi dei momenti liberi, utilizzando i supporti famigliari o amicali o di volontariato per essere sempre sereno e riposato di fronte al paziente. Il fatto di procedere con programmi di addestramento pre-dimissioni rende più tranquilli sia il paziente, che la famiglia che diventa così in grado di rispondere ai bisogni basilari del malato in autosufficienza, riprendendo così il controllo della malattia e della vita del proprio caro. Una particolare attenzione deve essere rivolta alla gestione del dolore o delle complicazioni nel paziente ammalato in quanto contribuisce a destabilizzare più facilmente la resilienza del caregiver. Quando questi incomincia a dare segni di cedimento si aumenta la delega ai servizi sanitari sempre pronti a supplire o a trovare nuove soluzioni più adeguate al momento, anche se in un recente rapporto di Cittadinanza Attiva ben l'80% di malati cronici lamenta l'insufficiente supporto psicologico per il malato e la sua famiglia.
RETE FAMILIARE
RETE SOCIALE PAZIENTE RETE SANITARIA
E fuor di dubbio, che l'intensità dell'esperienza metterà a dura prova qualsiasi relazione, sia quella fra partners, che quella fra genitori e figli o fra amici. Il tempo del caregiver è scandito dall'orologio del timore e della preoccupazione e non da quello di una nuova consapevolezza nella quale potrebbe immergersi la persona malata. Qualsiasi sarà il finale, questa potrebbe diventare un'esperienza negativa indelebile, se la rete familiare e sociale non saprà supportare il caregiver fisicamente ed emotivamente.
A volte il caregiver, sentendosi escluso dal processo della nuova consapevolezza del partner malato, nel tentativo di mantenere le cose come stanno, esita a facilitarlo su questa strada, mettendo in crisi l'equilibrio di una persona che sta tentando di ricostruirsi un nuovo senso dell'esistenza con una nuova scala di valori. Gli indici della qualità della vita per il paziente e il caregiver infatti sono correlati negativamente alla perdita di significato dell'esistenza che porta il vivere quest'esperienza complessa. Non è infrequente che, dopo queste esperienze, le persone non si ritrovino più e si separino. Nel 25% delle coppie che si separano, se la donna ha un tumore alla mammella chi chiede il divorzio è per lo più la donna..
Una delle prime cartine di tornasole di un conflitto relazionale che si sta aggravando è la scomparsa della sessualità; questa è la porta dell'inconscio che non può mentire a se stessa. Ogni scusa sarà buona per dilazionarla, fino a farla sparire con gravi ripercussioni sulla vita di coppia. La sessualità non può coesistere con i sensi di colpa, il senso di inadeguatezza, il rancore latente. La sessualità ci riporta all'io più profondo che deve sentirsi libero e tranquillo per potersi esprimere. Tranquillità che può anche essere momentanea, ma che deve essere resa sempre possibile. Spesso ai malati gravi in buona fede viene negata questa possibilità, ma se esiste anche la minima potenzialità questa andrebbe esplorata e coltivata per il suo effetto positivo. Carezze ed amore sono cose di cui nessuno dovrebbe essere privato, neanche in punto di morte.
Qualora venga rivelata a dei figli adolescenti la notizia che uno dei genitori soffre di una malattia oncologica, circa un terzo di loro reagisce con problemi comportamentali, con disagio scolastico, alimentare, disturbi del sonno e di socializzazione (Serpentini 2015). Nella preadolescenza invece i sentimenti predominanti sono quelli di auto-colpevolizzazione degli eventi e quindi diventa più acuito il bisogno di rassicurazioni da parte della famiglia pena la comparsa di sintomi depressivi. La notizia della malattia causa un effetto a catena su tutta la famiglia (Lewis 2010). In alcuni paesi è previsto un supporto psicologico per i fratelli di bambini con gravi o persistenti problemi di salute.
La prognosi di una malattia, ovvero l'esplicitazione da parte del medico del tempo rimasto o necessario, non si basa su nessun criterio scientifico, ma solo sull'esperienza del medico che la pronuncia. Infatti le variabili individuali su questo campo sono così tante, che è molto difficile prevedere l'evoluzione. Vi sono però dei criteri che influenzano la definizione di una prognosi. Per primo un criterio etico: non è corretto infatti dare false aspettative di vita ad un paziente a rischio; il secondo è il problema medico legale, dovuto al fatto che viene dato al paziente un tempo per sistemare i suoi affari o eredità e sicuramente una dipartita prematura che non permetta questo diventa un problema per i parenti.
Con queste premesse è chiaro che la prognosi pronunciata si atterrà al minimo prevedibile. La comunicazione della diagnosi di minaccia di morte e della prognosi è attualmente il momento più incerto della medicina italiana. Prima si preferiva tenere nascoste al paziente, anche mentendo, le sue condizioni e succedeva quindi che addirittura pazienti che frequentavano le oncologie non fossero a conoscenza della propria malattia. Ora la tendenza è di passare al modello americano: tutta la verità subito senza mediazioni. Solo che nel modello americano vi è sempre una proposta di cure ulteriori e protocolli sperimentali per prolungare anche se di poco la vita e la verità veniva mitigata da questa possibilità. In Italia al contrario si ragiona per protocolli formalizzati qualche anno prima i quali tendono spesso ad ignorare le nuove prospettive sperimentali di prolungamento di vita che compaiono continuamente nella scena medica. Anche questi protocolli, come abbiamo già detto prima, sono redatti per lo più da società scientifiche, finanziate con i soldi dell'industria farmaceutica frequentemente frutto solo di Consensus Conference (congressi medici sponsorizzati per lo più dalle case farmaceutiche) e non di studi randomizzati. Secondo la Evidence Based Medicine questi studi sono di livello C (il più basso nella scale della credibilità), per questo spesso poco resistenti ad una analisi epidemiologica e statistica accurata. Difatti solitamente la prognosi è formulata in base al risultato delle cure previste da un protocollo e cambiando protocollo o avviandosi verso cure sperimentali più di qualche volta logicamente si modifica. Solo ora, ma è una dote solo personale di ancora troppo pochi operatori, si sta cercando una via intermedia di comunicazione che fornisca al malato le informazioni che è in grado di sopportare in quel momento e se la richiesta di informazioni precise viene proprio dal paziente queste vengono fornite tenendo aperte la strada delle possibili cure e della salvaguardia della qualità della vita del paziente per mantenere così una buona alleanza terapeutica. Con due principi precauzionali: primo, non si deve mai mentire al paziente e, secondo, il familiare di riferimento deve essere esaurientemente informato. Una buona relazione può far miracoli ed è il motivo principale dell'avvicinamento alle terapie alternative di molti pazienti. Assurdamente in qualche congresso si è discusso sull'opportunità di delegare agli psicologi il compito di comunicare la notizia di una malattia con rischio di morte, ma evidentemente, poiché si tratta di un percorso congiunto che il paziente deve fare con il proprio medico, la proposta di un intervento isolato risulta alquanto difficile per la mancanza di conoscenza del paziente e delle sue dinamiche e inidonea in quanto rompe la continuità terapeutica. Naturalmente sono esclusi i casi di complessità tale che richiedano doti e preparazione particolare.
La prognosi a termine (di fine vita) per alcuni si è rivelata addirittura una opportunità. Poco tempo fa, la televisione tedesca ha presentato la storia di quattro persone che avevano ricevuto una prognosi di sei mesi e fra questi c'era una dottoressa in medicina. Queste persone avevano scelto, visto il poco tempo rimasto, di abbandonare tutto e di concentrarsi solo su se stessi, scegliendo le attività che sentivano più confacenti al proprio benessere. Questi quattro pazienti, allo scadere dei sei mesi, erano più in forma di prima e affermavano di essere praticamente guariti. Sembra vi siano state anche delle verifiche mediche del fatto. Ciò che avevano in comune era probabilmente il riprendersi la propria vita qui e ora, vivere il presente visto che il futuro era negato, ripensare a se stessi, allontanarsi da ogni preoccupazione alienante. Questo rivolersi bene sembra abbia dato risultati anche perché gli ormoni dello stress, cortisolo e adrenalina, fanno liberare in circolo enormi quantità di zucchero, sostanza della quale hanno estremamente bisogno le cellule tumorali per il loro metabolismo elevato; sembra quindi che una riduzione di questi ormoni privi le cellule tumorali del loro nutrimento.
L'effetto placebo (la somministrazione di un composto inattivo) è stato oggetto di numerosi studi ultimamente, che hanno rilevato come questo, in alcuni settori e in quello psichiatrico ancor di più, si presenti come un vero farmaco operatore dipendente. A riprova di questo, è la metodologia scientifica degli studi in doppio cieco (quelli classificati solitamente in evidenza A nella Evidence Based Medicine, il livello più affidabile), che prevedono la somministrazione di una sostanza inerte o di un farmaco già sperimentato nei casi di controllo, proprio per evitare il bias (la distorsione) provocato dell'effetto placebo. L'operatore che somministra il farmaco quindi può fare la differenza e questo si registra in maniera più evidente perché l'atteggiamento psicologico del paziente verso la sua malattia è importante non solo per la compliance (adesione piena alla terapia medica nei tempi e nei dosaggi prescritti), ma anche per la resilienza (capacità di lottare e di adattarsi ) possibile.
La morte e tutto ciò che vi sta intorno sono un tabù, poiché rivelano la limitatezza delle possibilità mediche, quasi una sconfitta che mette in discussione il senso di onnipotenza di cui si ammanta ai nostri tempi la medicina. Ma non se ne parla, anche per la complicità inconscia dei familiari, perché è molto facile e deresponsabilizzante delegare tutto alla struttura pubblica, per evitare di confrontarsi con la propria angoscia di morte, che questi pazienti possono suscitare. Questo proprio quando hanno più bisogno di cure amorose che di flebo superflue. Riversando tutto sull'ospedale anche la sostenibilità economica del sistema sanitario viene messa a rischio per un' evidente confusione di ruoli e responsabilità.
E' da un po' che accanto all'importanza della durata della vita viene considerato anche come nuovo valore la qualità della vita. Che cosa si intende per qualità della vita? La qualità relazionale, cioè la capacità di relazionarsi con gli altri, la mancanza di dolore (tempo fa l'Italia era fra le ultime per l'utilizzo degli oppiacei per il dolore, ma ora sembrano superati gli antichi timori di induzione alla tossicodipendenza, bizzarri, visto che vengono usati per pazienti di solito oncologici con prognosi a breve, si usano tranquillamente anche per i dolori resistenti agli altri antidolorifici), l'assenza di effetti collaterali dei farmaci, il controllo della depressione e dell'ansia collegate alla malattia, la tranquillità dei propri cari, la gestione dei problemi nel proprio ambiente familiare che vedremo nella descrizione dei nuovi servizi sanitari.
Triste e problematico è vedere le rianimazioni riempite da ottuagenari in coma, anche se si è a conoscenza che dopo 15 giorni di immobilità si sviluppa un'alterazione quasi irreversibile della muscolatura e quindi le capacità di recupero diventano estremamente limitate. Singolare il fatto che nelle rianimazioni è estremamente raro vedere preti o suore, e non solo perché il loro numero è ormai esiguo ma perché spesso fanno scelte meno invasive e rifiutano l'accanimento terapeutico, visto anche che possiedono il dono della fede nel paradiso e nella resurrezione. Chi ha seguito gli istituti nei quali venivano messi a riposo preti e suore è stato colpito dalla serenità con cui si affrontava la morte.
Quelli che vivono l'esperienza di un familiare morente, incappato nell'ingranaggio ospedaliero programmato per la tenuta in vita a tutti i costi, si lamentano spesso dei medici che in apparenza sembra si accaniscano inutilmente su una persona vicina alla fine. Ma mentre in USA una persona può decidere da prima se farsi rianimare o no, e questo al momento del coma viene rispettato, in Italia non esiste una simile legislazione. Esiste però l'art. 16 del Codice di Deontologia medica nel paragrafo “Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati” che recita: “Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita”. Concetti riassumibili nella desistenza terapeutica, nella quale il medico, in condivisione con il paziente se possibile o con i suoi famigliari, decide di intraprendere o di sospendere dei trattamenti terapeutici o tenere o non tenere un livello di intensità dell'assistenza proporzionalmente al risultato richiesto.
La condivisione con i familiari del tipo di trattamento da intraprendere o sospendere è stato finora il punto più delicato di queste scelte importanti le cui criticità attuali non sono state ancora sviscerate. La prima criticità è la qualità dell'informazione data dai medici ai famigliari. Spesso a questi viene fornita una prospettiva personale del medico, il quale non si attiene ai dati scientifici e statistici che dovrebbero fornire una base oggettiva e sufficientemente certa dalla quale partire per ogni decisione. Uno di questi dati oggettivi è la percentuale di restituzione alla piena integrità o alla parziale integrità in relazione all'età e al tempo di recupero dopo un evento grave che porti in rianimazione il soggetto. Per i medici, dare false speranze sembra un gesto di compassione, ma invece complica ai familiari le scelte successive che spetta a loro. Il compito più difficile per i famigliari è di interpretare i desideri espressi del paziente grave, sia precedentemente che durante il ricovero, tenendo conto della sua capacità di resilienza ovvero la sua capacità di reagire ed adattarsi alle menomazioni inevitabili dopo gravi eventi: la cosa si intrica quando gli aventi voce in capitolo sono numerosi e in disaccordo fra di loro su questa interpretazione. I medici, quando vedono tale disaccordo, per prudenza insistono con le cure anche se spesso tale disaccordo proviene proprio dalle informazioni personali, opinabili e discordanti fornite dal personale sanitario. Altro motivo di un possibile disaccordo fra famigliari sono i livelli di senso di colpa o di paura di perdere figure considerate insostituibili per il proprio equilibrio affettivo. Per paura di perdere figure significative per il proprio equilibrio, si preferisce allungare le sofferenze dei propri cari o metterli in situazioni di inabilità spesso insostenibili. E' evidente che queste carenze possono essere colmate da una nuova sensazione di unità che proviene anche dall'esperienza del lutto collettivo a cui si può aggiungere se necessario una buona psicoterapia.
L'intensità dell'assistenza sanitaria è strettamente legata al luogo di erogazione e alla tecnologia ivi presente. In rianimazione ovviamente la tecnologia è al massimo livello e volendo (è successo con il generalissimo Franco in Spagna) si può tenere artificialmente in vita un corpo per anni perché le macchine sostituiscono le funzioni vitali. Quasi nessuno muore se resta a questo livello di assistenza. Ma è chiaro che i posti sono limitati come pure il tempo. A seguire viene il letto d'ospedale per coloro che non sono più dipendenti dalle macchine; poi gli hospice per i malati a termine bisognosi di cure mediche non somministrabili a domicilio, le RSA e le case di riposo nelle quali le prestazioni sanitarie sono secondarie rispetto a quelle di accudimento ed infine casa propria dove l'accudimento è solo familiare ma può essere integrato dai servizi sociali e sanitari a domicilio con l'Assistenza domiciliare integrata che vedremo in seguito. I famigliari sull'intensità dell'assistenza hanno capacità decisionale piena e possono chiedere il trasferimento del proprio caro da un livello all'altro.
Le medicine alternative o naturali, come è già stato detto proliferano nella zona grigia della incomunicabilità della medicina. Le medicine alternative prendono piede tanto più quanto la medicina diventa impersonale con i protocolli tanto meno il personale sanitario, dagli infermieri agli oncologi ai medici di famiglia è preparato ad affrontare la presa in carico dei pazienti con diagnosi infausta. Un altro asso nella manica questo mondo ce l'ha quando denuncia la mercificazione delle cure e i profitti smisurati che le industrie farmaceutiche hanno sulla malattia e specialmente sulle malattie cronico-degenerative. Purtroppo queste ipotesi alternative rischiano di accettare supine un'altra mercificazione: quella della speranza. Infatti Stamina, Di Bella, la nuova medicina germanica, etc non vengono somministrate gratuitamente o compatibilmente alle risorse del malato ma invece sono fonte di business e profitti per molti professionisti che hanno trovato in loro una nuova collocazione professionale e quindi una grande opportunità di reddito. Ma naturalmente questo discorso è parziale come parziale e manichea è la condanna della medicina ufficiale verso queste cosiddette false speranze. La demonizzazione della medicina ufficiale delle terapie alternative, spesso è vero, fonte di truffe costose, è speculare alla demonizzazione della chemioterapia, anche questa con i suoi problemi come vedremo dopo, da parte dei medici cosiddetti alternativi; questo atteggiamento mette i pazienti in grave situazione di imbarazzo. Questo ostracismo e arroccamento reciproco non fa il bene del malato né della scienza e dovrebbe essere superato. Nella medicina ufficiale comunque esistono anche medici che sono disponibili, per presa di posizione o predisposizione personale, ad accompagnare il malato nelle scelte che vorrà fare senza irrigidirsi né scandalizzarsi.
Abbracciare una di queste medicine non è solo un bisogno umano di credere in qualcosa di importante dopo essere stati delusi dalle mancate promesse della medicina ufficiale o dall'incapacità della stessa di mettersi in relazione empatica e paritaria con il paziente, ma fa entrare anche in comunità che supportano il paziente. Queste comunità possono dare una risposta alla solitudine provocata dalla malattia e dall'angoscia di morte latente che serpeggia nei circoli famigliari e amicali oltre che fornire una diversa rappresentazione della malattia e della guarigione che pone l'ammalato finalmente in una posizione attiva. Questi bisogni espressi o latenti del paziente oncologico spesso non sono raccolti dal Sistema Sanitario Nazionale che quindi non può lamentarsi se questo spazio viene occupato da altri.
LA NUOVA MEDICINA GERMANICA
Ryke Geerd Hamer è un medico tedesco non più abilitato alla professione. Nel 1981 elabora una medicina alternativa conosciuta come la Nuova Medicina Germanica. Hamer sostiene che la genesi di ogni patologia è secondaria a traumi o conflitti non risolti. Questi traumi, oltre che provocare il tumore, provocano delle lesioni o focolai nei foglietti embrionali del cervello corrispondenti alla sua localizzazione. L'intuizione gli sorse dopo avere avuto un cancro del testicolo in seguito alla morte causata da motivi futili del figlio. Per le sue ipotesi venne arrestato e condannato più volte in diversi paesi europei. Nonostante fosse stato sospeso dalla professione medica da un tribunale tedesco nel 2006 per “monomania e grave perdita del senso di realtà” e fosse convinto che le sue leggi biologiche fossero state messe sotto silenzio da un presunto complotto mondiale degli ebrei, la sua teoria sfrondata dalla sua neurofisiologia approssimativa e dai suoi consigli terapeutici avventati, che avrebbero portato alla morte secondo le autorità oltre 140 persone, presenta alcuni stimoli interessanti. Alcune scuole infatti ne hanno accettato le premesse teoriche ma non le conclusioni terapeutiche.
Hamer sostiene di avere individuato nelle tac cerebrali dei pazienti delle lesioni corrispondenti in più casi clinici, lesioni precedentemente considerati artefatti (errori), che dimostrerebbero le basi neuro-anatomiche della sua teoria. Secondo la sua teoria, questi focolai sono direttamente correlati alla patologia, obbedendo alle 5 leggi biologiche:
1) Legge biologica
Primo criterio: ogni programma biologico e sensato (SBS) ha origine da una DHS (Sindrome di Dirk Hamer) cioè uno schock conflittuale, acuto, inaspettato, vissuto con un senso di isolamento contemporaneamente su 3 livelli: nella psiche, nel cervello,nell'organo.
Secondo criterio: il conflitto biologico nell'istante della DHS determina sia la localizzazione del SBS nel cervello come cosidetto Focolaio di Hamer, sia la localizzazione nell'organo come cancro o malattia oncoequivalente.
Terzo criterio: il decorso del SBS è sincrono su tutti e tre i livelli, dalla DHS fino alla risoluzione del conflitto, compresa la crisi epilettica-epilettoide nel punto culminante della fase di riparazione e ritorno alla normalità.
2) Seconda legge biologica
Legge della bifasicità ( dalla ferita alla cicatrice nota dell'autore) di tutti i programmi speciali, biologici e sensati a condizione di arrivare alla risoluzione del conflitto, (ad esempio un conflitto nella relazione madre bambino in una destrimane colpisce a dx il cervelletto e le ghiandole mammarie del seno sx)
3) Terza legge biologica
Il sistema ontogeneticamente condizionato dei programmi speciali biologici e sensati (SBS) del cancro e delle malattie oncoequivalenti determina una corrispondenza tra tronco cerebrale e organi, tra parti del cervello e organi
4) Quarta legge biologica
Il sistema ontogeneticamente determinato dei microbi (i microbi fanno parte del circuito regolatore della natura e lavorano nella fase di riparazione, sotto questo aspetto il sistema immunitario non esiste; su ordine del nostro cervello dai microbi patogeni si originano dei microbi benigni).
5) Quinta legge biologica
La quintessenza. Legge che permette di comprendere che ogni cosiddetta malattia è parte di un programma speciale, biologico e sensato (SBS) della natura.(10)
Le sue indicazioni di cura sono quelle che gli hanno dato più problemi: mentre a scelta concede l'asportazione chirurgica, egli nega il valore della radio e chemioterapia, arrivando a sostenere che è meglio tenersi il male che non far aggravare il paziente da pesanti chemioterapie. La sua teoria sostiene, in contrasto con l'anatomo-patologia, che il tumore è una cicatrizzazione del conflitto e che quindi toglierlo potrebbe aggravare la malattia e non guarirla; anzi, una volta asportato, potrebbe ripresentarsi, se il conflitto a cui è legata la lesione, non fosse risolto. L'asportazione è permessa in ogni caso quando la massa tumorale interferisca con le funzioni vitali. L'anatomia patologica delle lesioni neoplastiche descrive purtroppo cellule anomale ad alta replicazione e cellule necrotiche che colliquano il centro del tumore, non è stata trovata nella pratica clinica nessuna cicatrice ma solo un processo demolitivo irreversibile. Una cicatrice, sarebbe stata più logica anche nelle aree cerebrali dell'emotività, oltre che nel focolaio di Hamer nel quale era stato da lui individuato, mediante la tac cerebrale, un tessuto gliale di riparazione.
Con questi presupposti (nega l'aspetto patogeno dei batteri, l'esistenza dei virus, le funzioni del sistema immunitario, la presenza delle cellule metastatiche di cui vedremo dopo, l'ipotesi che le metastasi colliquate siano un aspetto di riparazione, etc) non c'è da meravigliarsi se anche gli spunti interessanti della sua teoria siano passati in secondo piano. Per esempio ha una sua logica la teoria che la malattia sia un falso bersaglio e che la cura debba interessare invece la persona, il suo benessere, la risoluzione dei suoi conflitti rimossi o dimenticati. Per la risoluzione del conflitto è prevista anche la chiusura, per il proprio benessere psichico e fisico, di situazioni in cui ci si trova imprigionati ma che non si possono recidere per i legami affettivi o di dipendenza in cui sono annodate. Più difficile è capire quando il conflitto è definitivamente risolto o se il conflitto analizzato è proprio quello giusto. Infatti questa interessante ma generica analisi psicologica può sbagliare il bersaglio. In più la teoria "ad ogni tumore il suo conflitto" soffre dello stesso determinismo parziale di cui è intrisa l'indagine genetica. Cosi come non esiste solo un gene che provoca la malattia non esiste nemmeno un conflitto che da solo possa innescare un tumore. Un conflitto infatti diventa esiziale solo se vi è una fragilità psicologica sottostante ed è questa semmai da affrontare e supportare.
Un'altra intuizione interessante della sua teoria è il rapporto fra il tumore e il cervello. E' abbastanza logico, che questa relazione esista pur non essendo mai stata approfondita. Solo la neuroendocrinologia, una scienza praticamente nuova, sta affrontando il problema. Tuttavia, a fronte della teoria hameriana di una presenza di una cicatrice cerebrale corrispondente ad ogni singolo tumore, la neuroendocrinologia afferma che non esiste un'assoluta specificità delle aree corticali riguardo ai singoli organi, dato che le decine di miliardi di neuroni che compongono il sistema nervoso non sono connesse solo in maniera lineare afferente o efferente (verticale), ma sono anche parte di una rete interconnessa orizzontale (Varela e altri 2001). Le tre classiche aree della neuroscienza, dell'endocrinologia e dell'immunologia con i loro diversi organi sono unite da una rete di comunicazione bidirezionale attraverso i neurotrasmettitori (Pert 2004). I neurotrasmettitori sono neuropeptidi (adrenalina, ossitocina, endorfine, etc) presenti in tutte le parti del corpo che modulano le funzioni trofiche, lo stato della comunicazione neuroendocrina, il livello di attività e reattività agli stimoli, il flusso e il contenuto del pensiero, la risposta agli stress E PER ULTIMO MA PIU' IMPORTANTE LA RISPOSTA IMMUNITARIA E ANTICORPALE LOCALE E GENERALE (Godino 2008). Il parallelismo con la medicina cinese è curioso; i canali energetici non sono altro che i flussi di neuropeptidi che attraversano tutto il corpo e il cervello. La mente, secondo la neuroendocrinologia, è costituita da un substrato fisico il corpo e il cervello e da un substrato immateriale che è il flusso delle informazioni (o dei neuropeptidi), praticamente tutto il nostro corpo pensa (Godino 2008).
Spesso queste medicine si ritengono in dovere di creare un corpus di spiegazione generale di tutti i fenomeni o un'altra interpretazione della patogenesi o processo della malattia allargando le singole intuizioni a teorie generali, le quali vengono regolarmente smentite dagli studi clinici organizzati dalle autorità sanitarie. Se si restasse negli ambiti limitati dell'esperienza positiva dei casi selezionati, esse potrebbero avere più successo, ma il business che si mette in moto dietro questi movimenti fa scordare il principio che ogni tumore ed ogni malato è diverso, l'interesse fa tradire cioè proprio il principio, da loro stessi sostenuto, secondo cui si cura la persona nella sua individualità e non la malattia. In ogni caso le associazioni che portano avanti questa teoria hanno l'indubbia utilità di mettere in comunità persone altrimenti lasciate sole con il loro problema.
Ma anche secondo Capra e Luisi, i sostenitori della medicina integrata, la malattia è un messaggio da decifrare come vedremo più avanti.
Già dal 1957, Balint poneva il problema dell'ascolto e della relazione all'interno delle diagnosi mediche per affrontare la sintomatologia funzionale o psicosomatica così presente prima, dopo e durante la malattia. L'accessibilità ad una medicina tecnologica ha fatto scendere in secondo piano l'aspetto relazionale della cura provocando un incremento di frustrazione nelle persone malate ma anche un incremento di frustrazione in chi questa cura dovrebbe fornirla.
Inutile dire che anche nella medicina ufficiale gli operatori più sensibili già si relazionano in tal modo ai pazienti, ma è evidente che molta strada deve essere fatta ancora perché tutti si impadroniscano di una visione strategica della relazione medico-paziente
IL METODO DI BELLA
Il cosiddetto metodo Di Bella o multi-trattamento Di Bella, sigla MDB, è una terapia alternativa per la cura dei tumori presentata ufficialmente nel 1989. La multiterapia è costituita da 5 componenti e si basa sull'uso di vari farmaci, ormoni, vitamine. Il composto, estremamente costoso, è costituito da :
Di Bella ha sostenuto in vita, ora la sua opera è continuata dai figli, di aver trattato oltre 15.000 pazienti. Il ministro della salute Rosy Bindi organizzò uno studio rigoroso sull'efficacia del metodo Di Bella con risultati ufficiali riportati analiticamente su Wikipedia. Ma ciò che risulta interessante è la lettura di questi risultati che riportavano un 3% di stazionarietà o guarigione del tumore per i carcinomi del pancreas, i carcinomi metastatizzati della mammella e per i linfomi non-Hodgkin. Zero% per tutti gli altri naturalmente. Vuol dire che 1 su 33 pazienti con questi tipi di tumore trovava beneficio dalla terapia . L'interpretazione ufficiale affermò che una percentuale di guarigione così bassa non era significativa e la valutazione costi benefici per un servizio pubblico era evidentemente sfavorevole; paragonata alle nuove terapie per l'epatite cronica dal costo attuale di 80.000 (poi ridotti) euro per trattamento, che promettono il 90% di eradicazione del virus, la discrepanza è evidente. Una seconda discrepanza è stata l'affermazione di Di Bella che la chemioterapia fosse da evitare quando nel suo cocktail vi sono chemioterapici antitumorali ancora usati dalla medicina ufficiale oltre a vitamine e leggeri antidepressivi che miglioravano sicuramente umore e malesseri. Suggerimenti questi che dovrebbero essere raccolti dalla medicina ufficiale, in quanto spesso si presta poca attenzione alla qualità della vita e al benessere dei pazienti in chemioterapia, o che sono in uno stato avanzato della malattia. Il 27 dicembre del 2014, il tribunale di Foggia emise una sentenza in cui la ASL di Foggia venne condannata al rimborso delle cure col metodo Di Bella per due pazienti madre e figlia, affette da carcinoma metastatico della mammella, le quali, dopo il fallimento della chemioterapia avevano utilizzato il politrattamento con evidenti e visibili regressioni della malattia. Il magistrato ribadisce che il metodo Di Bella risponde al principio dell'economicità, poiché i farmaci di questa terapia hanno un costo minore di quelli del circuito ufficiale e precisa che l'efficacia terapeutica di un farmaco può essere sempre provata nel caso concreto (criterio dell'efficacia terapeutica).
STAMINA
Il metodo Stamina è un controverso trattamento introdotto da Davide Vannoni, un laureato in Lettere che si interessava di comunicazione. E' rivolto principalmente alle malattie neurodegenerative e si baserebbe sulla reinfusione nel paziente stesso di cellule staminali mesenchimali estratte dal proprio midollo osseo dopo una manipolazione in vitro (una soluzione di cellule staminali per due ore in una soluzione di acido retinoico). Il metodo è in parte mutuato da studi sperimentali di ricercatori russi ed ucraini, che hanno negato l'assenso alla diffusione della terapia, perché non ancora sicura. Nella sperimentazione del metodo sono stati coinvolti anche gli Ospedali Riuniti di Brescia e il Garofalo di Trieste. La Stamina Foundation ha coinvolto numerosi medici nelle sue attività che essendo pagate ad intervento dai 20 ai 50.000 euro, non possono che definirsi lucrative. Anche qui le staminali, un promettente canale di ricerca, vengono utilizzate, al di fuori anche degli studi dei ricercatori primitivi, per ogni patologia tumorale o degenerativa indipendentemente dalle indicazioni. Usare un farmaco al di fuori delle proprie indicazioni è proibito dalla legge anche quando riguarda farmaci inseriti nel prontuario nazionale per ovvi motivi di tutela dei pazienti. E' forte infatti la pressione delle industrie farmaceutiche per allargare le indicazioni e quindi il campo d'azione e relativi introiti per i propri farmaci.
LA VITAMINA C
La vitamina C, somministrata per via endovenosa in quantità equivalenti a quelle contenute in 2000 (duemila!) arance, potrebbe costituire un'arma in più nell'arsenale delle terapie contro il cancro. È quanto ipotizza uno studio pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine: alte dosi di vitamina C renderebbero più efficace la chemioterapia e allevierebbero i suoi effetti collaterali. Non è certo la prima volta che la vitamina C viene tirata in causa come possibile terapia antitumorale. Alla fine degli anni '70, Linus Pauling, due volte vincitore del premio Nobel (per la chimica nel 1954 e per la pace nel 1962) sosteneva che alte dosi di acido ascorbico, altro nome della vitamina C, erano in grado di prevenire o trattare molti tipi di tumore. Quella di Pauling è stata una vera e propria ossessione sui benefici dell'acido ascorbico. Ma gli studi clinici organizzati per verificare la sua teoria non hanno mai trovato alcun risultato positivo. Da allora la vitamina C è stata abbandonata dalla medicina ufficiale, anche se trova ancora cittadinanza, più che altro come terapia di supporto, nella medicina alternativa.
In un nuovo studio, Qi Chen e colleghi della University of Kansas hanno prima esaminato l'effetto dell'acido ascorbico in laboratorio su linee cellulari di vari tumori (su cui ha dimostrato un effetto tossico), poi l'hanno somministrato per via endovenosa e a dosi altissime, da dieci a cento volte superiori a quelle normalmente presenti nell'organismo, a topi in cui erano stati indotti tumori dell'ovaio, e trattati con farmaci chemioterapici classici, il carboplatino e il paclitaxel. Negli animali alla cui chemioterapia era stata aggiunta la vitamina C, i tumori si sono ridotti assai più che in quelli sottoposti alla sola chemioterapia.
Il trattamento è stato sperimentato anche su un piccolo gruppo di malati di cancro in fase avanzata, 25, sottoposti a chemioterapia, per vedere se la vitamina C ad alte dosi era tollerata. Apparentemente sì: i pazienti non avevano avuto effetti collaterali dalla vitamina, ma hanno sopportato meglio la chemioterapia, dichiarando di avere avuto meno nausea e fatica.
Sulla base di questi risultati promettenti, gli autori dello studio sostengono che il caso della vitamina C come trattamento anticancro vada riesaminato. La mancanza di efficacia emersa nei vecchi studi – sostengono – potrebbe essere dovuta al fatto che la vitamina era somministrata per via orale. In questo modo, solo una piccola quantità viene assorbita dall'intestino, ma la maggior parte viene eliminata dai reni. La somministrazione per via endovenosa, invece, riesce a far salire la concentrazione di acido ascorbico nel sangue a livelli impossibili con l'assunzione orale.
Non è neppure chiaro in che modo la vitamina C svolga la sua azione, e anche questo ha contribuito alla scarsa fiducia che potesse davvero funzionare. L'acido ascorbico è noto per essere un antiossidante, cioè una molecola che combatte l'azione dei radicali liberi. Proprio per questo motivo, si è ragionato che il suo effetto logico dovrebbe essere di indebolire l'efficacia della chemioterapia boicottando il suo effetto ossidante sulle cellule tumorali. Da questo studio sembrerebbe esattamente l'opposto.
Gli scienziati ipotizzano che la vitamina C somministrata in vena e ad alte dosi agisca in realtà proprio come ossidante, cioè aiuti le sostanze chemioterapiche nell'opera di danneggiamento delle cellule tumorali, risparmiando però quelle sane.
Essendo la vitamina C coinvolta nella sintesi del cortisolo endogeno ed essendo questo a sua volta è implicato nel metabolismo del calcio, sono stati ipotizzati nella pratica un aumento dei fenomeni osteoporotici (perdita di calcio dalle ossa). E' anche sconsigliato a chi soffre di calcolosi o problemi renali
Interrogativi che andrebbero sciolti con altri studi. Il problema è chi potrebbe essere interessato a finanziarli, dato che la vitamina C costa poco e non è brevettabile. L'unica è che, come chiedono gli autori dello studio, entrino in gioco enti pubblici.
L'ASCORBATO DI POTASSIO
"Uno dei meccanismi coinvolti nello sviluppo di un tumore è lo stress ossidativo che genera delle specie reattive dell'ossigeno capaci di danneggiare sia il DNA che altre strutture cellulari” spiega il dott. Massimo Fantini, dell'Università degli studi Roma 2-Tor Vergata. Sono numerosi gli studi scientifici a riguardo che provano un danneggiamento della pompa sodio/potassio, una sorta di “canale” che attraversa la membrana cellulare da parte a parte. L'alterata attività di questa pompa provoca uno squilibrio nel trasporto del sodio e del potassio che, a sua volta, causa un aumentato ingresso di glucosio nella cellula con un incremento della respirazione cellulare e una proliferazione incontrollata.
Anche il ruolo dello ione potassio (K+) e del D-ribosio sono noti: il D-ribosio partecipa alla produzione di energia nella cellula, oltre ad essere il precursore di alcuni amminoacidi, mentre il potassio è coinvolto in molti processi tra i quali il mantenimento del potenziale di membrana. Dai risultati preliminari di uno studio condotto per analizzare l'effetto antitumorale dell'ascorbato di potassio da solo o in combinazione con il ribosio su cellule di carcinomi mammari, alcuni ricercatori hanno dedotto come “la somministrazione combinata con ascorbato di potassio da solo o in combinazione con D-ribosio è risultata più efficace dopo quattro giorni con una inibizione della crescita cellulare”. Non solo, “l'ascorbato di potassio, in associazione con il ribosio, determina, dopo solo due giorni di somministrazione, un significativo aumento di cellule morte” conclude il dott. Fantini dell'Università di Roma -2 Tor vergata. La ricerca portata avanti dal dott. Luca Bruni e la dott.ssa Simonetta Croci, ricercatori dell'Università di Parma e INBB di Roma, ha dimostrato invece come l'utilizzo combinato di potassio e D-ribosio (K:D-Rib) su linee cellulari stabilizzate di carcinomi umani alla mammella produce non solo un rallentamento della proliferazione delle cellule, ma anche la riduzione della capacità di invadere un tessuto da parte di cellule di tumore mammario rispetto a cellule non tumorali di epitelio mammario. “Questi dati sperimentali, unitamente ad una ricca bibliografia sui canali del potassio, ci hanno portato ad ipotizzare che una fine regolazione della concentrazione di K+ sta alla base di un corretto funzionamento delle cellule” spiegano il dott. Luca Bruni e la dott.ssa Simonetta Croci. È nata dunque l'esigenza di capire se il potassio entrasse oppure no nelle cellule a seguito del trattamento con K:D-Rib. Attraverso un esperimento teso a dimostrare, nella cellula, la formazione di una specifica macromolecola che avviene solo a idonee concentrazioni di K+, i due ricercatori hanno così concluso: “I dati preliminari mostrano che, a seguito della somministrazione di K:D-Rib una quantità di ione K+ entra nella cellula e che il D-Ribosio è implicato nel favorire questo ingresso, ristabilendo la concentrazione fisiologica di K+”.
Non meno importanti i risultati ottenuti dallo studio svolto nell'ambito di un progetto finanziato dall'Università di Siena che si è basato sul monitoraggio di markers di stress ossidativo di proteine, lipidi e DNA prima e dopo l'assunzione di ascorbato di potassio con ribosio (dopo approvazione di un comitato etico), da parte di pazienti affetti da patologie congenite del tessuto connettivo e patologie degenerative (morbo di Parkinson, Alzheimer, condizioni di invecchiamento precoce), valutando anche l'andamento clinico della malattia. “Gli studi, eseguiti nell'arco di dieci anni” spiega la dott.ssa Cecilia Anichini “hanno dimostrato l'importanza dello stress ossidativo nelle patologie considerate con un miglioramento sia del quadro clinico che dell'assetto dei biomarker, variabile sulla base dell'età, del quadro clinico e dei parametri da stress, senza evidenziare nessun tipo di effetto avverso”.
L'ALOE ARBORESCENS
L'aloe arborescens si distingue dalla più diffusa aloe vera per le sue maggiori proprietà fitoterapiche date da una presenza più massiccia di antachinoni. L'aloe-emodina, presente nell'aloe arborescens, nel maggio del 2001 è stata brevettata dall'Università di Padova, dopo uno studio dell'anno prima (15) per l'utilizzo in oncologia per il suo effetto apoptotico ovvero nel facilitare la morte delle cellule neoplastiche. Uno studio (14) ha dimostrato come l'aggiunta dell'aloe durante una chemioterapia abbia portato ad una regressione maggiore del tumore e sopratturro a minori effetti collaterali anche se si sospetta che sia un'antagonista di alcuni chemioterapici. L'utilizzo ponderato sembra così essere quello complementare, cioè in associazione o dopo fallimento della chemioterapia, e quello palliativo, quando ogni cura è già stata tentata, al posto o al fianco di dosi ridotte di cortisone e morfina per le sue capacità antiinfiammatorie. Gli effetti collaterali sono principalmente intestinali tipo diarrea mentre quelli più importanti non sono ancora stati dimostrati. Il composto di aloe arborescens risulta alquanto instabile, cosa che impedisce una preparazione farmaceutica. E' sensibile alla luce e si altera velocemente col tempo, per cui chi lo usa consiglia di assumerlo fresco conservandolo al massimo per 15 giorni.
L'ARTEMISIA
L'artemisia annua è una piccola pianta erbacea proveniete dalla cina. L'artemisina è un estratto chimico usato in tutto il mondo per la malaria resistente. In merito all'utilizzo dell'Artemisia Annua come farmaco antitumorale, si può dire con certezza che, in esperimenti in vitro, uno dei suoi principi attivi, l'artemisinina e i suoi derivati, hanno dimostrato un effetto tossico sulle cellule tumorali e che questa classe di farmaci è utilizzata come trattamento della malaria con un profilo di tossicità estremamente favorevole. Alcuni ricercatori dell'Istituto Nazionale dei Tumori sono direttamente coinvolti nella valutazione di un altro principio attivo dell'Artemisia Annua, la diidroartemisinina, e del suo ruolo antineoplastico valutato per ora sempre su modelli preclinici: i risultati sono convincenti ed è in corso di preparazione una pubblicazione scientifica (fonte IRCCs). Questa è una traduzione approssimativa della redazione di AIMAC di un articolo scientifico riguardante l'artemisina.
"L'Artemisinina reagisce con il ferro per formare dei radicali liberi che sopprimono le cellule. Dal momento che le cellule tumorali assorbono una grande quantità di ferro rispetto alle cellule normali, supponiamo siano più suscettibili agli effetti tossici dell'Artemisinina. In precedenti ricerche, abbiamo dimostrato che l'Artemisinina è più tossica per le cellule tumorali rispetto alle cellule normali. Nella presente ricerca, abbiamo legato l'artemisinina alla glicoproteina transferrina, ipotizzando che sia il ferro e l'Artemisinina sarebbero stati trasportati congiuntamente nelle cellule tumorali. Una volta all'interno di una cellula, il ferro viene liberato e può facilmente reagire con l'Artemisinina, in modo da aumentare la tossicità e la selettività dell'Artemisinina nei confronti delle cellule tumorali. In questo articolo, si descrive un metodo per sintetizzare tale composto, che è stato poi testato su delle cellule leucemiche (Molt-4) e su normali linfociti umani. Abbiamo scoperto che questo composto di Artemisinina, se confrontato con l'Artemisinina semplice, era più potente e selettivo nel sopprimere le cellule tumorali. Pertanto, questo composto potrebbe potenzialmente essere sviluppato all'interno di un agente chemioterapico efficace per il trattamento del cancro."(16)
CONSIDERAZIONI FINALI
E' veramente un peccato che degli stimoli intellettuali e dei medicamenti semplici solo perché non hanno l'imprimatur della medicina ufficiale vengano snobbati se non guardati con sospetto. Nessuna teoria e nessun preparato può promettere le percentuali di guarigione, come vedremo dopo, della medicina ufficiale. Ma esiste ancora un'area di insuccesso di questa; non tutti i tumori hanno percentuali di regressione o stabilizzazione soddisfacenti, per cui usare alcune di queste sostanze in modo complementare durante la chemioterapia o dopo avrebbe un senso logico; ancor di più per la medicina palliativa, quella che si fa a conclusione della cura, che avvalendosi principalmente di cortisone e morfina, potrebbe giovarsi di alcune di queste sostanze. Purtroppo l'investimento sulla ricerca dell'industria farmaceutica è ora polarizzato nei farmaci biologici non solo ad alto costo per il Sistema Sanitario Nazionale ma anche per molti pazienti per i loro effetti collaterali importanti. E' anche vero purtroppo che c'è chi si approfitta dei viaggi della speranza di persone che desiderano tentare tutto per i loro cari. Un ragionamento logico che potrebbe proteggere da questi avventurieri privi di etica è quello che, se costoro chiedono molti soldi, sono sicuramente dei millantatori in quanto se un prodotto funzionasse veramente e promettesse un grande ritorno economico, sarebbero le case farmaceutiche ad appropriarsene e a distribuirlo. Le terapie alternative anche se dolci presentano anch'esse dei possibili effetti collaterali che non sono gestibili da personale non medico per cui è necessario verificare sempre le qualifiche di chi dispensa consigli spesso in possesso di solo di corsi brevi di naturopatia o erboristeria.
Gli enti pubblici potrebbero occuparsi delle ricerche su queste sostanze che non promettono ritorni di investimento importanti ma anche i cittadini, le persone che hanno vissuto la loro esperienza e ne hanno tratto delle conoscenze possono, mettendo in comune le loro informazioni, arrivare a definire meglio l'utilizzo e la maneggevolezza di questi composti adiuvanti.
Gli screening per i tumori si muovono secondo una logica di intensità ed estensione, di valutazione dei costi-benefici, di classificazione del rischio personale .
L'intensità è l'approfondimento con esami strumentali non di primo livello (es risonanza magnetica); l'estensione riguarda popolazioni di medio rischio per classi di età per esempio lo screening mammografico nelle donne di età compresa fra 50 e 74 anni. La valutazione costi benefici riguarda i falsi positivi che provocano l'overdiagnosis e il conseguente overtreatment, un eccesso cioè di diagnosi inutili o premature. Un discorso a parte merita la classificazione del rischio individuale o personale determinato dalla famigliarità della patologia. Un alto rischio significa avere nella famiglia casi di tumore sotto i 50 anni circa. Questi soggetti devono seguire un monitoraggio specifico per il tipo di tumore in questione più ravvicinato nei tempi e, se indicato, più approfondito. Queste persone con famigliarità positiva non devono rientrare negli screening indicati solo per i casi a basso e medio rischio, ma devono essere monitorati dal proprio medico, che determinerà a seconda dei casi i tempi e i modi delle indagini che a questo punto, possono essere considerate prediagnostiche. Tenere nella dovuta considerazione i livelli di rischio personali con particolare attenzione ai soggetti ad alto rischio significa non solo recuperare le storie sanitarie delle parentele ma anche mappare il rischio provocato dall'ambiente di lavoro, dai livelli dell'inquinamento outdoor come per il particolato PM10 o PM2,5 della combustione di idrocarburi, dai pesticidi irrorati dall'alto o per vicinanza, dall'inquinamento elettromagnetico, dal radon indoor, dalla carne rossa insaccata etc. etc., tutti elementi inseriti dallo IARC come probabili o possibili cancerogeni.
Utile sarebbe tenere un diario delle esposizioni e delle malattie famigliari da presentare al proprio medico, che registrerà tutto nella propria cartella clinica; meglio se, le sostanze chimiche a cui si è stati esposti ,sono identificate e ne vengono descritti i possibili effetti tossici acuti e cronici. Questa nuova metodologia anamnestica è ancora in fase iniziale ma darà in futuro una buona sorveglianza epidemiologica che permetterà una medicina più personalizzata o come si dice ora sartoriale.
Diversi studi sui modelli di screening hanno dimostrato che aumentando l'intensità degli screening oncologici sui soggetti a medio rischio diminuiscono i benefici e aumentano i rischi e i costi perché aumentano i falsi positivi. Si identificano infatti così solo una serie di lesioni non evolutive per le quali è necessario solo un monitoraggio nel tempo, si induce una cascata di prestazioni inutili e costose sia diagnostiche che terapeutiche, si provoca inoltre uno stress ingiustificato ai pazienti(9). Un discorso a parte merita l'autopalpazione del seno in fase postmestruale che anche se sicuramente non superiore alla mammografia di routine produce insieme a questa un effetto protettivo e di diagnosi precoce da non trascurare.
Tutti gli screening oncologici sono per i motivi suddetti continuamente posti a verifica e discussione, non avendo ancora risolto i problemi connessi alla loro capacità di ridurre realmente la mortalità.
Recente è la pubblicazione di una meta-analisi che vede l'utilità dello screening mammografico sulla popolazione generale messa in discussione, in quanto una diagnosi troppo precoce porterebbe alla diagnosi di carcinomi che resterebbero in situ (iniziali e non progressivi) e che quindi potrebbero non dar segno di sè per tutta la vita. Secondo uno studio di coorte condotto dal Nordic Cochrane Centre di Copenaghen lo screening mammografico non contribuisce alla diagnosi precoce e comporta una rilevante incidenza di sovradiagnosi. In questo studio però non è stato stimato l'esito più importante per giudicare l'efficacia di uno screening, cioè l'impatto sulla mortalità ancora da definire per i carcinomi in situ (carcinomi piccoli e stabili) (Ann. Intern. Med. 2017; 166:313-23). Nota a tutto il mondo scientifico è l'alta percentuale di focolai di carcinomi in situ della prostata rilevata dalle autopsie degli ultraottantenni che non avevano e probabilmente non avrebbero mai dato nessun disturbo in vita. Per chiarire il problema è stato realizzato uno studio su 1298 soggetti con un carcinoma in situ (paginemediche.it 2016) con rischio tumorale molto basso o basso (Gleason uguale o meno di 6). Dopo 15 anni di osservazione la sopravvivenza esente da cancro e la sopravvivenza esente da metastasi era rispettivamente del 99,9% e del 99,4%, praticamente avevano lo stesso risultato. In discussione è comunque l'utilizzo indiscriminato del PSA che, se non utilizzato in pazienti selezionati, è altamente gravato da falsi positivi che però provocavano interventi aggressivi inutili, complicazioni da biopsie, complicazione da intervento (su 100 pazienti operati circa il 30% soffre di impotenza e più del 18% di incontinenza urinaria( Centro Studi Allineare Sanità e Salute 2015). La USPSTF ( U.S. Preventive task force) nelle sue linee guida del 2012 raccomanda di non utilizzare lo screening mediante PSA in quanto non esiste evidenza che comporti una diminuzione di mortalità.
CAP 9 BIS VACCINI E IMMUNODEPRESSIONE
I pazienti che sono sottoposti a trattamenti con chemioterapici per le neoplasie, i pazienti affetti da malattie ematologiche (leucemie, linfomi), immunodeficienze acquisite di origine virale (infezione da HIV), i bambini con immunodeficienze congenite o i soggetti in trattamento cortisonico (asma, malattie autoimmuni ecc.) o in terapia immunodepressiva (trapiantati) possono non avere una risposta immunitaria valida alla somministrazione di vaccini. La loro reazione anticorpale e quindi protettiva può risultare non sufficiente ad evitare la malattia. Questi pazienti potrebbero ricevere senza pregiudizio per la salute vaccini ottenuti da microrganismi (virus, batteri) uccisi o inattivati, da anatossine, da costituenti dei batteri o dei virus o immunoglobuline. Al contrario non devono ricevere vaccini contenenti organismi ancora vitali anche se attenuati nella loro virulenza come per esempio il vaccino orale per la polio ma preferire quello iniettabile detto Salk, vivi sono anche i vaccini per il morbillo, parotite , rosolia.
Vista la maggior possibilità di effetti collaterali e/o reazioni avverse vaccinali e la quasi certezza dell'impossibilità di avere una reazione anticorpale sufficiente e prolungata è consigliabile per questi soggetti praticare un' immunità di prossimità cioè: vaccinare o assicurarsi che tutti coloro che hanno a che fare con questi pazienti (famigliari e operatori) siano in possesso di una protezione immunitaria adeguata per le malattie più pericolose, evitare che persone con malattie anche lievi in atto vengano a contatto con questo paziente, assicurarsi che i luoghi di ricovero siano bonificati prima del loro ingresso. Inefficace e pretestuosa in questo caso è l'immunità di gregge che anche arrivasse al 95% auspicato( per l'OMS è sufficiente il 90%), non proteggerebbe a sufficienza il malato. Infatti la cosiddetta immunità di gregge non può che verificarsi solo dopo la vaccinazione di diverse coorti annuali ( circa 500.000 l'anno) ed è quindi una proiezione di sicurezza futura non attuale. Inoltre il problema correlato per esempio alla vaccinazione antimorbillosa è la durata limitata di protezione indotta dal vaccino che lascia come le recenti rilevazioni epidemiologiche rivelano più esposti gli adulti quindi più suscettibili anche a causa della presenza di adulti europei provenienti da paesi con bassi tassi di vaccinazione.
Dalla fine degli anni settanta diversi professionisti medici, biologi, psicologi e scienziati di altre discipline hanno sviluppato una visione sistemica della salute. Gli slogan di questo nuovo approccio alla salute e alla cura erano medicina olistica, medicina complementare, medicina alternativa, etc. termini che si uniscono poi nella definizione di medicina integrata. La medicina integrata è intesa dai suoi sostenitori come un approccio orientato alla cura, che tenta di tenere insieme il meglio della terapia convenzionale e di quella alternativa o complementare.(1)
Secondo la medicina sistemica ogni sistema vivente risponde ai disturbi del suo ambiente in modo cognitivo e autonomo. I cambiamenti strutturali che derivano da questo disturbo possono essere cambiamenti di autorinnovamento o cambiamenti di sviluppo in cui emergono nuove forme d'ordine. Questa visione dei sistemi viventi suggerisce che la salute possa essere definita come un bilanciamento dinamico del soggetto nei confronti del suo ambiente. La salute è quindi un'esperienza di benessere che risulta da un equilibrio dinamico in cui sono coinvolti aspetti fisici e psicologici dell'organismo oltre che le sue interazioni con l'ambiente naturale e sociale. Ammalarsi (uscire fuori dall'equilibrio) e guarire (ritornare all'equilibrio) sono entrambi parte integrante dei processi di vita. La presa di coscienza di questo processo è una nuova cognizione dell'essere vivente. Un'attitudine positiva e di presa di coscienza dell'origine del disequilibrio avrà un un forte impatto positivo sul sistema mente- corpo e spesso renderà possibile invertire il processo di malattia.(1)
Che questo motore positivo sia possibile viene dimostrato dall'effetto placebo i cui effetti sorprendenti sono determinati dalla modalità di accompagnamento della terapia e dalla predisposizione d'animo del soggetto.
Secondo Capra e Luisi la malattia è un messaggio e dovrebbe essere presa come un'opportunità di introspezione per comprenderne il significato, così che il problema originale possa essere espresso a livello conscio e quindi possa essere risolto. Spesso i cambiamenti fondamentali nello stile di vita di una persona, indotti da malattie acute, sono esempi di risposte creative che possono portare quella persona a un livello di salute persino maggiore rispetto a quello che aveva precedentemente.(1)
Secondo la prospettiva sistemica lo stress è una delle principali cause di disequilibrio dell'organismo e agisce quando una delle mutevoli variabili biologiche del soggetto sono spinte all'estremo inducendo un aumento della rigidità in tutto il sistema. Questa perdita di flessibilità porta alla malattia. Un elemento chiave nel legame fra stress e malattia è che uno stress prolungato sopprime il sistema immunitario che ha un ruolo essenziale nell'auto-organizzazione dell'individuo (1)(come barriera a tumori e infezioni).
Alcuni interventi basati sulla consapevolezza migliorano significativamente ansia e depressione correlati ad una diagnosi di tumore. Secondo Mei-Fen Zhang dell'università cinese di Guangzhou autrice di una meta-analisi di sette studi per un totale di 469 pazienti questo tipo di intervento risulta efficace anche se è ancora limitato nella durata e dipendente dal tipo di supporto psicologico. Questo intervento si basa sull'idea buddista di consapevolezza che si riferisce ad una coscienza intenzionale senza intento di giudizio delle esperienze attuali (Medicine 2015: 94 e 897). Questi interventi comprendono la terapia cognitiva sulla consapevolezza, riduzione dello stress basato sulla consapevolezza e terapia artistica basata sulla consapevolezza.
La consapevolezza è un concetto alieno per noi occidentali. Osho nell'ABC del risveglio scrive: "Quando incominci a lasciar andare i pensieri -la polvere che hai raccolto nel passato- la fiamma si risveglia: pulita chiara, viva e giovane. Essere presenti senza pensieri: ecco cos'è la consapevolezza. Se riesci a vivere in questo momento, se riesci ad essere qui in questo momento, ogni cosa si prende cura di se stessa, non hai bisogno di essere ansioso"(12). "Ci sforziamo di sfuggire al quesito posto dall'esistenza occupandoci della proprietà, del prestigio e del potere" afferma Eric Fromm "mentre benessere significa rinunciare al proprio ego. Benessere significa essere correlati alla natura e all'uomo"(13). Sentirsi parte del ciclo della vita universale e delle persone che ci stanno intorno. La nostra mente è occupata da pensieri di potere, passati o futuri che ci impediscono di vivere il presente liberi e tranquilli. Ci ricordiamo le ferite narcisistiche passate e temiamo quelle future. Una mente libera da questi pensieri fastidiosi e ansiogeni è più capace di reazioni creative, di cogliere un'opportunità in ogni cosa oltre che entrare in uno stato di calma.
Uno dei filosofi più radicali e più innovatori della filosofia occidentale e del nostro tempo che si spingono a dare un'idea diversa della vita e della morte, è Emanuele Severino, che seppur di non facile lettura merita un'attenzione particolare.
Prima dei greci la morte non era vissuta come annientamento perché non esisteva il senso dell'opposizione fra essere e nulla. Il pensiero greco guarda dritto in faccia al niente ed è il volto più angoscioso che la morte possa avere per l'uomo. Il dolore umano dipende da ciò che il sofferente è convinto di essere e dopo la filosofia greca siamo convinti di essere solo polvere destinata al nulla. La ricerca di un riparo spinge a ricorrere all'idea di Dio o a diventare come esso grazie alla scienza e alla tecnica che nella loro ricerca dell'immortalità diventano come Dio. La necessità di porre un'ancora di salvezza per l'uomo, la salvezza dall'annientamento, spinge i greci a proporre la ricerca della verità cioè l'esistenza del vero essere, l'essere eterno, sempre salvo dal nulla. Ma l'idea di un Dio al di sopra del divenire è destinata al tramonto. Infatti ogni concetto di immutabilità o di un essere immutabile rende illogico e quindi non vero il divenire. Sollevando l'eterno al di sopra del divenire, si arresta il divenire stesso e lo si rende illusorio. Quindi l'uno esclude l'altro. Non è più plausibile l'ipotesi di venire dal nulla e ritornare nel nulla, perché se un niente è legato ad un ente significa che il suo legame è un niente, è inesistente.
Ma anche nella Grecia antica, Parmenide, col suo principio di non contraddizione, affermava già che l'essere è e non può non essere.
Nietzsche diceva che l'esistenza di ogni eterno rende impossibile il divenire dell'essere, vi sono quindi i presupposti di un tramonto dell'idea di Dio nella filosofia occidentale.
Einstein duemila anni dopo Parmenide, riprendendo Lavoisier affermava come ipotesi incontrovertibile della fisica moderna che nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. La teoria della relatività afferma che nel cronotopo quadridimensionale (lo spaziotempo con le tre dimensioni fisiche tridimensionali più il tempo) ogni evento presente, passato e futuro è! Per la teoria della relatività, sia il futuro, che il passato, che il presente sono. Si può affermare che la teoria della relatività sostenga l'eternità degli essenti del cronotopo.
La necessità quindi che ogni essente sia impossibilitato a non essere può essere chiamata eternità. “ Siamo re che si credono mendicanti". L'uomo è eterno ma crede alla follia che lo dice mortale e quindi mendica la propria salvezza dal baratro del niente presso un Dio oppure come accade ora presso la scienza. Il divenire è il comparire e lo scomparire degli eterni. All'interno di questo cerchio dell'apparire degli essenti si fa avanti la Terra: ma ciò che si fa avanti è un eterno e ciò che scompare è un eterno. E' all'interno dell'eternità che accade l'evento che il nostro corpo appare come vivo e poi come cadavere.
Noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore, sia quando ridiamo e risplende la gioia, non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo. (Carlo Rovelli da Sette brevi lezioni di fisica).
F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125
125. L'uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n'è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l'intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest'azione è ancora sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l'hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l'uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.
Per il buddhismo la vita è piena di dolore, la sofferenza è dovuta alle passioni che rendono l'uomo perennemente insoddisfatto e all'ignoranza del proprio karma negativo che impedisce di accedere alla illuminazione. La meditazione e la compassione sono il rimedio. La meditazione serve ad aprire nuovi orizzonti all'uomo, la compassione serve per mettersi in relazione con il mondo in modo sereno secondo le leggi del karma positivo. La morte è interpretata quindi come una liberazione.
Meno drastici ma sulle stesse linee di pensiero sono i filosofi orientali trapiantati in Europa. Francois Cheng, accademico di Francia, afferma che è la coscienza della morte che ci fa vedere la vita come un grande dono. La morte è necessaria alla vita: dobbiamo mutare la prospettiva e capovolgere lo sguardo considerando la vita a partire dalla propria morte. Ciascuno di noi è erede di una lunga stirpe. Che rapporto ha la vita di un uomo con il tempo dell'universo? Secondo il Tao "ciò che è proviene da ciò che non è e ciò che non è contiene ciò che è". Senza il divenire non ci sarebbe la morte ma nemmeno la vita, dobbiamo dotarci di una visuale più ampia del nostro divenire personale nel divenire universale.(7)
Ogni vita possiede una unicità che segue il proprio percorso spinta dal tempo irreversibile, il dialogo fra le unicità finite ci porta alla gioia dell'infinito, è questo il soffio originale dell'autentica intersoggettività, è il tempo verticale dell'istante che se vissuto appieno in questa intersoggettività è veramente infinito mentre il tempo orizzontale è legato al divenire. La solitudine è la nostra decisa chiusura alle infinità delle unicità, l'eternità è nell'istante unico e pieno delle passioni. La morte non è la nostra fine ma rende tutto unico quaggiù.(7)
Nei suoi libri "il Tao della fisica" e "Il punto di svolta" Fritjof Capra, un fisico ricercatore, ha denunciato i limiti e le insufficienze della pensiero occidentale, ancora legato alla scienza newtoniana e al metodo cartesiano, fondati su un pensiero lineare e riduttivo messo in crisi proprio dalle scoperte della nuova fisica quantistica. Secondo l'autore, solo un superamento del riduzionismo attraverso una nuova visione olistica, sistemica ed ecologica potrà aiutarci a risolvere i problemi del nostro tempo. La concezione sistemica che ne deriva considera il mondo in termini di rapporti e integrazioni. I sistemi sono totalità integrate, le cui proprietà non possono essere ridotte a quelle di unità minori. La tendenza dei sistemi viventi a formare strutture pluristratificate i cui liveli differiscono per complessità è diffusa nell'intera natura. L'albero sistemico rappresenta i vari livelli di complessità all'interno di un organismo vivente, il tronco dell'albero dei sistemi indica che l'organismo individuale è connesso con sistemi sociali ed ecologici più vasti. Il concetto di ordine o di sistema stratificato fornisce anche la prospettiva più appropriata per considerare il fenomeno della morte. L'autorinnovarsi è un aspetto essenziale dei sistemi viventi e questo è il proprio ciclo di nascita e morte.
Ma non tutti gli organismi muoiono. Organismi unicelluari semplici come i batteri e le amebe si riproducono per divisione cellulare e così continuano semplicemente a vivere nella loro progenie. La clonazione sperimentale va in questa direzione.
Ma circa un miliardo di anni fa l'evoluzione passò in una fase di accelerazione straordinaria e produsse una grande varietà di forme. A tale scopo la vita dovette inventare il sesso e la morte. Senza il sesso e l'accoppiamento dei cromosomi non ci potrebbe essere stata varietà genetica e senza la morte non ci potrebbe essere stata l'individualità. Anche noi siamo nati e siamo destinati a morire perché siamo parte di sistemi più grandi che si rinnovano di continuo ma solo se si considera l'intero pianeta come un singolo organismo vivente, da qui l'ipotesi Gaia o la Terra come sistema vivo più complesso. L'unico modo per superare il dilemma esistenziale della condizione umana è, in ultima analisi, quello di trascenderlo, sperimentando la propria esistenza entro un contesto cosmico più ampio.
Filosofia occidentale e orientale, dopo tanti interscambi sporadici nel corso dei tempi, sembra siano giunte in questo caso finalmente ad una sintesi comune.
Poco o nulla sappiamo della morte moderna, quella avvinghiata alla tecnica, quella che avviene dentro gli ospedali e i reparti di terapia intensiva. La morte naturale che lo si voglia o no non esiste più. A questa improvvisa nuova possibilità di scelta rispuntano i filosofi: dove c'è scelta dev'esserci l'etica. Aldo Schiavone, uno storico, arriva al punto di dire “in ogni morte non c'è più la natura che fa il suo corso ma solo un provvisorio fallimento terapeutico, un'artificialità negoziata”. Nel delirio di onnipotenza delle potenzialità dell' ingegneria genetica Schiavone ipotizza che questa sarà in grado di prolungare quasi indefinitamente le nostre opportunità di vita biologica e in più si moltiplicheranno le forme intermedie (di esistenza) nelle quali sarà possibile mantenere le funzioni di un pensiero e di una personalità individuali entro strutture parzialmente o quasi completamente extrabiologiche. Accogliendo i suggerimenti di Watson, lo scopritore del DNA e quindi della manipolazione genetica nel giro di qualche generazione avremo una specie umana post-naturale. Somigliare a Dio non sarebbe la situazione di arrivo ma quella di partenza, egli afferma. Noi saremo sempre di più come vorremo essere: sta finendo la nostra preistoria. L'umano si sta appropriando del proprio destino. La prima obiezione a tutto questo riguarda che senso abbia augurarsi vite semi-artificiali prolungate o quasi infinite in un pianeta finito, con risorse finite o limitate, già adesso sempre più incapace di sopportare il peso demografico mondiale naturale. La seconda riguarda la disuguaglianza, un'entità incoercibile del genere umano (si lotta infatti per l'uguaglianza non per la chimera dell'abolizione delle disuguaglianze, questo è un processo non un fine). Se questa disuguaglianza dovesse riflettersi anche nel codice genetico sarebbe la strada della schiavitù geneticamente determinata, tutto questo ricorda Aldous Huxley. Terza obiezione è la scarsa affidabilità della genetica che indurrebbe solo potenziali malattie o la predisposizione e non certezza in quanto l' ambiente risulta ancora il fattore scatenante principale; inoltre il nostro codice genetico a detta dei genetisti è pieno di difetti che però non si paleseranno mai, perché la nostra biologia prevede questo. Quarta obiezione, ma non la meno importante, è la scarsa considerazione, in queste forme di vita estreme, della qualità della vita elemento essenziale della bioetica contemporanea.
Grande interesse ha suscitato la pubblicazione di uno studio britannico (fonte: Translational Psychiatry 2015) secondo cui un aumento di carezze materne fino a cinque settimane dalla nascita risulta collegato ad una riduzione della metilazione del promotore 1-F del gene recettore per i glucocorticoidi (gli ormoni dello stress) con effetti fisiologici positivi sui neonati. A nove settimane dalla nascita le carezze materne non producevano più nessun effetto. Lo studio era eseguito in correlazione con la presenza di depressione pre e post natale delle madri. Se l'effetto epigenetico verrà ulteriormente supportato, affermano gli autori, si dovrà affiancarlo ad altre evidenze sul ruolo dell'esperienza sociale precoce, ad esempio la sensibilità paterna, e capire se tutte queste esperienze ed effetti sono indipendenti fra di loro o cumulabili. La ridotta sensibilità dei neonati a 9 settimane è probabilmente dovuta alla maturazione del sistema nervoso sensitivo che per funzioni protettive alza la soglia di recezione degli impulsi.
Ma questo significa che riducendo le soglie di sensibilità sono replicabili le modificazioni genetiche prodotte da una stimolazione? E' solo una domanda che apre interessanti orizzonti per le massoterapie di tutti i tipi o per le ginnastiche orientali tipo lo yoga.
La Fondazione Veronesi nega che sia mai stata dimostrata ancora nessuna correlazione fra stress e sviluppo dei tumori. Anzi in un grosso studio prospettico in cui si seguivano per anni persone coinvolte in un lutto significativo non è stato dimostrato su queste nessun aumento significativo di tumori rispetto alla popolazione generale. Anzi qualcuno arriva a supporre che un dose di stress dosata abbia addirittura un effetto protettivo a questo riguardo e questo può coincidere con la fisiologia. Come tutti sanno lo stress, produce degli ormoni, il cortisolo e le adrenaline, che per lo stato d'emergenza aumentano la produzione di difese fra cui i linfociti T, deputati alla sorveglianza delle mutazioni cellulari .
Ma mentre è ancora in discussione la correlazione fra stress e insorgenza dei tumori, è accettato, anche dalla Fondazione Veronesi che lo stress sia collegato, grazie all'attivazione di uno specifico gene che inganna il sistema immunitario, ad una maggiore diffusione del cancro. In uno studio pubblicato su Journal of Clinical Investigation 2013 i ricercatori hanno collegato la presenza del gene ATF3 nelle cellule del sistema immunitario alla maggior tendenza alla metastatizzazione di un campione di 300 pazienti con un cancro al seno delle medesime caratteristiche. “Se il corpo è in prefetto equilibrio non è un gran problema, afferma uno dei ricercatori. Ma se il corpo è sotto stress questo cambia il sistema immunitario.
Ad oggi non esiste una definizione di esperienza di stress che abbia un significato utile per procedere operativamente negli studi clinici e che venga accettata universalmente, per cui le correlazioni sono spurie o inquinate da le molteplici facce dello stress e i molteplici tipi di reazione individuale allo stesso. Fra gli elementi determinanti dei vari fattori di stress vi è la depressione, la frustrazione e lo stress a tempo prolungato. Anche qui tutto si correla bene alla fisiologia: mentre un stress dosato o limitato nel tempo agisce sui linfociti T positivamente tenendoli in funzione, una situazione prolungata porta alla riduzione, all'esaurimento o alla modifica della risposta immunitaria, dalla quale potrebbero trarre origine anche le malattie autoimmunitarie, oltre alla diminuzione della sorveglianza sulle cellule in continua metamorfosi o trasformazione.
I ricercatori dell'ISS (l'Istituto Superiore di Sanità) hanno osservato su un campione di 80 donne con cancro alla mammella come un lungo periodo di isolamento sociale fosse in grado di amplificare la risposta dell'organismo allo stress acuto con la conseguente riduzione del Fattore Neurotrofico Cerebrale (Bdnf una proteina che aiuta la sopravvivenza dei neuroni) in diverse aree del cervello.
Questa riduzione porta ad una maggiore possibilità a sviluppare la depressione. ”Lo stress emotivo", afferma il prof. Grassi, ordinario di psichiatria all'università di Ferrara, "non è un disturbo solo psicologico ma una malattia che può indebolire l'organismo anche sul piano biologico”. Uno studio americano delle università di Stanford e Alberta ha messo a confronto 2 gruppi di donne con cancro al seno e metastasi. Il primo gruppo è stato curato per la depressione con una psicoterapia di gruppo di tipo supportivo-espressivo iniziata subito dal primo anno di malattia. Queste malate hanno avuto una sopravvivenza più che doppia rispetto alle altre. Alla domanda se questo dipenda dall'aderenza alle cure il prof. Grassi risponde: “Questo è un aspetto ma non è l'unico. Esistono infatti dati che indicano come gli aspetti biologici della depressione si esprimono non solo con un indebolimento delle difese immunitarie, come si sa da tempo, ma anche con una alterazione dei vari sistemi ormonali e con un aumento delle produzioni di citochine.”
Ritornando a noi, molti di questi esperti ritengono la depressione in queste situazioni una malattia sottostimata, ma determinante nel paziente e nei suoi famigliari, da trattare in primis con passeggiate nel verde e attività fisica in luoghi naturali, evitando l'isolamento, tenendo una fitta rete di relazioni parentali e amicali, partecipando ai gruppi di autoaiuto o alle psicoterapie di gruppo o individuali. Un discreto successo ce l'ha l'ergoterapia; il pizzaterapy, per esempio, coinvolgendo i malati di tumore in attività collettive di impasto, cottura della pizza sotto la supervisione di un esperto pizzaiolo, ha ottenuto un alto gradimento presso i pazienti.
In sintesi per evitare la depressione sono tutti concordi nel consigliare di mangiare sano, impegnarsi nell'attività fisica e passeggiate nel verde, frequentare i gruppi di auto aiuto e gruppi di psicoterapia, evitare l'isolamento sociale tessendo una fitta rete di relazioni.
Uno degli effetti collaterali più frequenti di una malattia grave all'interno di una coppia è la modificazione della sessualità. La depressione o la fatigue indotta dalla malattia o dalle terapie, gli interventi chirurgici che mutilano organi riproduttivi come interventi ginecologici o al seno o alla prostata, o altre parti del corpo che rendono più difficile l'attività sessuale precedente influiscono certamente su questo aspetto anch'esso spesso sottovalutato da chi si prende cura di questi pazienti. Il cambiamento dell'immagine corporea provocata dalle conseguenze della malattia influisce su entrambi i sessi ma produce solo il 7% dei divorzi nel caso di un tumore maschile mentre nel caso di un tumore della sfera sessuale femminile arrivano al 25%. Le donne divorziano più degli uomini, in questo gioca il ruolo del corpo per il sesso femminile nella propria autostima e identità personale ma i care-giver più numerosi sono le donne favorite dall'attitudine all'accudimento sperimentata nell'allevare i figli; queste qualità o identità possono essere naturalmente miscelate anche nel sesso maschile. Importante è il meccanismo della proiezione per cui si proietta sul partner la mancata accettazione che si ha per se stessi; questo meccanismo psicologico è oltremodo fonte di equivoci e di malintesi che possono essere destruenti nel rapporto di coppia. I pazienti affermano che i problemi fisici siano preponderanti nel 90% nell'ostacolare la sessualità precedente, mentre invece per il 75% sono solo psicologici. Parliamo di precedente perché per il 35% preesistevano problemi sessuali e per costoro il cammino per recuperare una sana sessualità è più lungo di coloro che avevano una buona intesa prima della malattia.
Coloro che avevano una buona intesa sessuale prima della malattia desiderano che almeno questo aspetto rimanga integro e coloro che precedentemente non avevano lo stesso affiatamento la considerano importante per un recupero della relazione e per la spinta al benessere che dà una buona sessualità. Se per il 75% i problemi sono psicologici, senza nulla togliere alla complessità di certe personalità, significa che si può tentare di risolverli; mentre per il 25% di reali problemi fisici vi possono essere per la maggior parte dei casi delle soluzioni sia che queste comportino l'uso di farmaci (sildenafil, protesi etc) sia che comportino la riscoperta di una sessualità non usuale, più fantasiosa magari con l'aiuto di psicologi o sessuologi se l'intimità con le persone vicine non è tale da poterne parlare apertamente. La perdita della sessualità in una coppia con problemi è un impedimento in più alla capacità di reagire in termini positivi alla malattia. L'imbarazzo di ricominciare l'attività sessuale è presente sia nel malato che nel partner ma se si inizia esplorando prima le zone libere dalla malattia lasciando le aree interessate al dopo a stabilizzazione avvenuta si può recuperare lentamente la sensualità necessaria ad avviare la risoluzione del problema. I partner durante la chemioterapia devono usare il profilattico. Non aspettatevi che argomenti come la depressione o la sessualità escano fuori spontaneamente durante una visita. Oltre all'imbarazzo del paziente a parlare di queste cose vi è anche l'imbarazzo del medico. Anche se molti psico-oncologi si battono perché la cura al malato di tumore diventi globale, cioè che affronti tutti gli aspetti della vita messi in discussione dalla malattia, la maggior parte degli operatori, tranne quelli personalmente portati all'empatia, è ancora a digiuno di tutti questi temi. La interdisciplinarietà necessaria per delle cure complesse è spesso un'ancora di salvataggio per il personale sanitario che è inabile, non solo per mancanza di formazione ma anche per la presenza di inibizioni personali non risolte, a parlare disinvoltamente di temi che prevedono una propria temprata tranquillità. Si preferisce appunto demandare all'esperto, ma questo risulta impossibile se non si riesce neppure ad accennare al discorso.
I tumori del sangue, come linfomi, leucemie e mielomi, sono tra quelli più frequenti in età giovanile. Tra i 14 e 40 anni, secondo i dati di uno studio Istat-Istituto superiore di sanità, questi rappresentano "il 27% dei vari tipi di cancro". L'esistenza di trattamenti che possono aiutare la procreazione dopo chemio o radioterapia dovrebbe essere comunicata a tutti i pazienti dall'oncologo, cosa che purtroppo spesso non avviene. Nel mondo occidentale ad esempio viene detto solo al 4% delle donne (meno del 10% delle donne sotto i quarantanni accede ora ad una delle tecniche di preservazione della fertilità: quotidianosanita.it 12/07/2016) con un tumore che c'è la possibilità di proteggere la propria fertilità dagli effetti di chemio e radioterapia con diverse tecniche”. Stesso discorso per i maschi che dopo una chemioterapia si possono ritrovare anche dopo un certo tempo con una azospermia ovvero una totale assenza di spermatozoi. Naturalmente questo dovrebbe avvenire nei tempi utili a non ritardare i trattamenti antiblastici. Per questo è molto importante che gli specialisti, come oncologici e ginecologi, siano informati di questa possibilità, in modo da poter inviare le pazienti ai centri di oncofertilità di riferimento. In Italia i migliori centri di eccellenza in questo ambito si trovano al Nord, in Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte. Tre fondamentalmente le tecniche utilizzate per preservare la fertilità nelle donne: una è quella di mettere a riposo le ovaie con alcuni farmaci, in modo da ridurre il danno prodotto dalla chemioterapia; l'altra è quella di preservare gli ovociti, prelevati e congelati dopo una stimolazione ormonale, come in un ciclo di fecondazione assistita; e la terza è quella di conservare il tessuto ovarico, che poi verrà reimpiantato una volta terminate le cure. L'Aimac ( Associazione malati di cancro) fornisce un numero verde per avere ulteriori indicazioni sui centri per la procreazione. Dopo la diagnosi della malattia e prima della terapia.Le donne che hanno avuto un tumore del seno sono, tra tutti le pazienti sopravvissute a un cancro, quelle che hanno la minore probabilità di avere un figlio dopo la diagnosi, perché temono che l’elevata produzione di ormoni rilasciati durante la gravidanza potrebbe indurre la moltiplicazione di cellule maligne latenti pronte a svilupparsi. Questa preoccupazione è particolarmente sentita dalle donne con tumore al seno positivo al recettore degli estrogeni (ER-positivo), alimentato appunto da questi ormoni femminili. Le pazienti con questo tipologia di tumore assumono farmaci anti-estrogeni per cinque/dieci anni allo scopo di tenere sotto controllo il cancro. La gravidanza significherebbe interrompere la terapia che, è dimostrato, impedisce al cancro di recidivare.
LE TECNICHE DI PRESERVAZIONE DELLA FERTILITA' NELLA DONNA
pubblicato su paginemediche.it
Uno studio recente, condotto da IVI e dall’Ospedale La Fe di Valencia, su un campione di 1.759 pazienti (1.024 vitrificazioni di ovociti e 735 crio-preservazioni della corteccia ovarica) rivela che non esistono differenze significative in tema di nuovi nati: questo significa che sia la vitrificazione degli ovociti sia la crio-preservazione della corteccia ovarica hanno praticamente la stessa efficacia. Di tutte le pazienti che hanno preservato la propria fertilità, sono state prese in considerazione quelle che hanno utilizzato il proprio materiale vitrificato per tentare di rimanere incinte.
In questo studio, i cui risultati sono stati presentati lo scorso 3 luglio a Ginevra in occasione della 33ª edizione del Congresso ESHRE, sono stati messi a confronto i risultati delle pazienti che avevano devitrificato i propri ovociti con quelli delle donne che si erano sottoposte ad un trapianto di corteccia ovarica. La conclusione di questo confronto è che tra i due trattamenti non esistono differenze significative nella percentuale dei neonati.
Secondo il Dottor César Díaz, ginecologo di IVI Valencia e uno dei principali responsabili di questo studio, “è molto importante indicare bene le tecniche a ciascuna paziente, dato che non tutte possono beneficiare delle stesse”.
Ancora lontano dal trovare una soluzione magica, l’obiettivo di IVI e dell’Ospedale La Fe di Valencia è quello di offrire tutti gli strumenti e le tecniche possibili alle proprie pazienti, per poter individualizzare e adattare ogni trattamento in funzione delle loro necessità.
In questo senso, il Dottor Díaz ammette che “se c’è tempo sufficiente prima di iniziare la chemioterapia, la paziente ha una riserva ovarica accettabile e ha già iniziato la pubertà, probabilmente la cosa migliore sarà effettuare una vitrificazione degli ovociti, dato che, alle stesse condizioni per ciò che si riferisce alla percentuale di neonati, questa tecnica è meno aggressiva”.
“La crio-preservazione della corteccia ovarica, d’altro canto – conclude la Dottoressa Daniela Galliano, Direttrice del Centro IVI di Roma - è da consigliare alle pazienti in età pre-puberale, per quelle che ancora non hanno avuto il ciclo mestruale e per le quali risulta complicata la stimolazione e, di conseguenza, il recupero degli ovociti. Anche nelle pazienti con tumori molto aggressivi, come il linfoma di Burkitt, nel cui caso non c’è tempo sufficiente per stimolare le ovaie prima di iniziare la chemioterapia”.
La ricerca, uno dei pilastri di IVI, consente una volta di più, attraverso studi come questo, di mettere a disposizione di tutte le sue pazienti le migliori tecniche, oltre ad un ventaglio più ampio di soluzioni per realizzare il loro sogno di essere madri.
Vitrificazione di ovociti
La vitrificazione di ovociti consiste nella stimolazione delle ovaie con ormoni simili a quelli che produce la paziente, per poi poter estrarre gli ovuli dalle ovaie mediante un ago molto fino, con un procedimento che richiede solo una minima sedazione. In seguito, gli ovuli vengono conservati mediante un raffreddamento ultra-rapido, che evita la formazione di cristalli di ghiaccio, proteggendo così gli ovuli per tutto il tempo che sia necessario (anche decenni).
Si tratta dello stesso metodo che viene utilizzato per preservare ovuli nelle pazienti che vogliono posticipare la maternità per motivi di lavoro o personali. Una volta guarita dal cancro, la paziente potrà utilizzare questi ovuli per fecondarli con il liquido seminale del partner o di un donatore per generare un embrione che verrà impiantato nell’utero della paziente.
Crio-preservazione della corteccia ovarica
Consiste nell’estrarre un frammento della superficie delle ovaie mediante una chirurgia minimamente invasiva (laparoscopia). Il procedimento dura più o meno 20 minuti, e la paziente può tornare a casa o iniziare la chemioterapia già alcune ore dopo. Successivamente il tessuto viene congelato e messo da parte per gli anni che siano necessari.
Se la paziente presenta un problema alle ovaie, si potrà tornare ad impiantare lo stesso tessuto con una nuova operazione, recuperando nuovamente la sua funzionalità, sia dal punto di vista della fertilità sia dal punto di vista della produzione di ormoni (farebbe regredire la menopausa conseguente a numerosi dei trattamenti oncologici). Allo stesso tempo consente la gestazione spontanea, senza dover ricorrere a tecniche di fecondazione in vitro.
LA GRAVIDANZA PROTEGGE DAI TUMORI?
Lo studio presentato all’ASCO ha incluso oltre 1.200 donne sotto i 50 anni che hanno ricevuto diagnosi di tumore al seno non metastatico prima del 2008: la maggior parte (57%) presentava un canco ER-positivo. Nel complesso, 333 donne sono rimaste incinte e ognuna di queste è stata abbinata a tre donne con tumore simile che non era in gravidanza. Dopo circa 10 anni di follow up, non vi era alcuna differenza significativa nel ritorno del cancro tra le donne che avevano avuto un figlio e quelle che non l’hanno avuto. “I nostri risultati confermano che una gravidanza dopo il tumore al seno non va scoraggiata anche nel caso di cancro ER-positivo – ha commentato Matteo Lambertini dell’Istituto Jules Bordet di Bruxelles – Nelle donne con tumori ER-positivi non c’era differenza nella sopravvivenza globale. Nelle donne i cui tumori non erano stati alimentati dagli estrogeni, quelle che hanno avuto una gravidanza hanno presentato una probabilità di morte del 42% minore rispetto a quelle che erano incinte, suggerendo che la gravidanza possa essere effettivamente protettiva contro le recidive”. Secondo i ricercatori, saranno necessarie ulteriori ricerche per capire gli effetti della gravidanza nelle donne con tumore al seno HER2-positivo, ovvero quei tumori che sono più aggressivi, o nelle donne che ereditano mutazioni per i geni BRCA.
fonte ASCO
(Home › Salute & Prevenzione ) Chi ha un tumore non sa cosa mangiare. Il 70% dei malati di tumore non ha ben chiaro cosa e quando mangiare, otto su dieci denunciano problemi nutrizionali anche durante la terapia e la metà non viene adeguatamente informato dai medici oncologi. Questo allarme arriva dai primi dati di uno studio della Coalizione Europea dei Malati di Cancro (ECPC). Nel sito dell'ECPC le informazioni più richieste sono quelle riguardanti l'alimentazione.
In assenza di adeguate informazioni, il paziente non sa come comportarsi. Il risultato è che “una delle cause più frequenti di perdita di peso nel decorso postoperatorio sono le diete "autoprescritte", perché il paziente ha paura di mangiare”, riferisce l'esperto che spiega come “secondo un altro studio condotto con 1.970 pazienti in tutta Italia, che stiamo valutando ora, nel 66% circa dei casi è già presente una perdita di peso alla prima diagnosi e la maggior parte dei pazienti, a parte il caso dei tumori alla mammella, sono in stadio 3-4, quindi con una malattia avanzata”. Ogni tumore poi richiede indicazioni diverse per la nutrizione. Il problema “è ancora più sentito in caso di tumore gastrico, visto che il primo intervento è la gastrectomia, cioè l'asportazione dello stomaco”. Quale dieta deve seguire il gastrectomizzato e per quanto tempo, come compensare le carenze di vitamine e ferro, oppure come si metabolizza l'alcol: queste alcune delle domande “che noi pazienti ci facciamo e a cui è difficile trovare risposta” spiega Claudia Santangelo, presidente dell'associazione “Vivere senza stomaco”, che ha vissuto sulla propria pelle il problema di un'alimentazione troppo ricca di zuccheri e oggi soffre gravi di problemi di sbalzi glicemici. Una corretta nutrizione “per noi può fare la differenza fra la vita e la morte”, avverte Santangelo.
MICROBIOTA INTESTINALE: UNA NUOVA PROSPETTIVA
Vi è un interesse crescente su questa nuova pagina della medicina.
Gli studi sul microbiota intestinale, chiamato precedentemente flora intestinale ovvero la popolazione di microrganismi che popolano il nostro intestino (batteri, miceti, virus, protozoi), hanno portato a importanti scoperte sulle sue funzioni prima sconosciute. Nel 2020 sono stati pubblicati oltre 10.000 articoli su questo tema.
Influenza dal 70% all80% la nostra risposta immunitaria
1) Influenza ansia e depressione. Il microbiota in salute influisce sul nostro umore perché partecipa alla trasformazione di un aminoacido (il triptofano) in melatonina e serotonina
2) Fa barriera nel nostro intestino contro l’ingresso in circolo di microrganismi pericolosi che potrebbero attaccare altri organi (i batteri gram negativi hanno nella membrana esterna i lipopolisaccaridi che sono proinfiammatori)
3) Digerisce parti del nostro cibo altrimenti non utilizzabili producendo metaboliti o postbiotici utili al nostro corpo
E altro
Ma la cosa che ci interessa di più sono le sue implicazioni nella genesi e persino nella cura dei tumori. E’ evidente che un’implicazione così importante nella risposta immunitaria avesse voce in capitolo nel momento in cui una cellula impazzita, la cellula neoplastica, sfuggisse al controllo dei nostri guardiani cellulari e umorali. Ma che risposta stessa ai farmaci antineoplastici fosse influenzata dal tipo di microbiota del singolo individuo nessuno se lo aspettava.. Il profilo di microbiota, pur non essendo ancora un biomarcatore validato, sembra però impattare non solo sull’efficacia delle terapie antitumorali, ma anche sulle tossicità derivanti dalle stesse. La cosa necessita di ulteriori studi naturalmente e per il momento non è ufficializzata se non guardata con sospetto. E’ evidente che la spinta è verso la sintesi di nuovi farmaci biologici sempre più potenti e costosi invece che studiare un potenziamento delle vecchie terapie.
Ma la curiosità scientifica e l’osservazione sul campo sempre moderata da una rigorosa epidemiologia spinge a dare notizia ma non false speranze di questo nuovo percorso.
Studi ancora sperimentali fanno supporre che la disbiosi intestinale possa precedere lo sviluppo di alcuni cancri e di altre malattie.
La presentazione di 2 casi sentinella ha il compito di indurre la comunità scientifica ad una riflessione e ad un maggior impegno su questo tema.
CASO 1: PIERO
Piero ha oltrepassato la cinquantina da qualche tempo soffre di una psoriasi diffusa ingravescente. E’ costretto a mettere i guanti di cotone per non ferirsi per il prurito terribile che lo perseguita giorno e notte.
Il suo peregrinare fra i dermatologi gli ha procurato cure massive di corticosteroidi sia orali che locali che non riescono a far regredire ne a controllare la malattia.
Prima della malattia ha avuto un lutto che lo ha lasciato prostrato.
In questo periodo di sofferenza non ha badato molto alla alimentazione preferendo per comodità e gusto i prodotti caseari che però su varie sollecitazioni sta diminuendo. Ma la situazione non migliora. Dopo varie cure cosiddette disintossicanti decide di tentare l’idrocolonterapia. Questa consiste in 12 sedute di clisteri intestinali che provocano una rimozione quasi totale della flora intestinale presente. Dopo la terza seduta il prurito si attenua e alla dodicesima questa fastidiosa malattia della pelle scompare quasi completamente.
2 caso Antonio 60 anni
DIAGNOSI adenocarcinoma duttale pancreatico 3 stadio con infiltrazione del tripode celiaco
Alla diagnosi gli stessi oncologi erano dubbiosi sull'opportunità della chemioterapia data la sua scarsa efficacia . Antonio vuole tentarla ma accanto alla chemio pratica regolarmente delle sedute di idrocolonterapia oltre a provare vari rimedi naturali antitumorali di dubbia efficacia. Intanto cerca di superare il trauma affettivo provocato da un lutto familiare di cui non si da pace.
L'accoppiamento chemio e idrocolonterapia sembra funzionare , il tumore si riduce. A 5 anni dalla diagnosi è ancora vivo e in forze. Inusuale per questo tipo di tumori.
Quali sono quindi i fattori determinanti il microbiota e il microbioma?
1) LA DIETA:
Fibre e fermenti sono gli elementi essenziali per mantenere un microbiota in buona salute. Da CONSUMARE SOLO SALTUARIAMENTE i carboidrati raffinati; pane, pasta, riso bianco. Una dieta ricca di grassi animali modifica il microbiota impedendogli di esplicare la sua funzione di barriera alla permeabilità intestinale.
Le fibre solubili sono contenute naturalmente nelle verdure, la frutta con la buccia, legumi; le insolubili nei cereali integrali e un po' nei legumi.
Senza modificare subito le abitudini inserire delle insalate di verdure fresche prima dei pasti è un buon inizio. Variare il pasto porta ad uno sviluppo armonico del microbiota
I fermenti si possono ottenere dallo yoghurt fatto in casa al quale si può aggiungere dei ceppi specifici, dal kefir, dai crauti non pastorizzati.
2) L'ACQUA:
Il cloro usato per la potabilizzazione delle acque continua il suo effetto disinfettante anche nell'intestino mettendo disordine nel microbiota. Utile è , se si usa l'aqua del rubinetto, raccoglierla in grosse caraffe e lasciarla aerare, il cloro è una sostanza volatile, dopo poco tempo la maggior parte evapora evapora. Alternativa più costosa usare acque minerali di montagna.
3) I PESTICIDI:
Il 54% delle specie batteriche intestinali del nucleo umano sono potenzialmente sensibili al glifosato, il pesticida più usato e più studiato. Inoltre le quantità minime permesse sono calcolate sul singolo pesticida e non sull'insieme dei pesticidi presenti. Orientarsi verso il biologico riduce molto il rischio dell'esposizione ai pesticidi. In alternativa lavare bene frutta e verdura anche con una spzzola se possibile.
4) L'ATTIVITA' FISICA
L'attività fisica non intensa regolarizza la produzione di acidi biliari e incrementa il butirrato ( acido grasso a catena breve che ha un'importante funzione sull'epitelio intestinale aumentandone l'effetto barriera). La sua azione si esplica forse attraverso la diminuzione degli zuccheri che arrivano nell'intestino.
L'attività fisica intensa provoca secrezioni di adrenalina e cortisone in eccesso che modificano in negativo la flora intestinale.
5) LO STRESS
Un livello minimo di stresso tensione è normalmente tollerato ma i traumi emotivi che producono scariche di adrenalina sono delle concause importanti per l'alterazione del microbiota intestinale. Questi traumi vanno quindi risolti, superati o se ne devono prendere le distanze (anche fisiche).
Studiando il profilo del microbiota intestinale alcuni ricercatori hanno posto le basi per poter predire quali fra i soggetti a rischio con cirrosi epatica o fegato grasso ha più possibilità di ammalarsi di cancro al fegato.I fattori di rischio per steatosi (fegato grasso) e cirrosi , escludendo i danni da virus, alcol, autoimmunità sono la iperalimentazione,, l'eccesso di fruttosio industriale contenuto in bibite, succhi, marmellate e altro, l'assenza di attività fisica, i problemi di peso e altri fattori genetici.
La relazione fegato-intestino gioca un ruolo chiave nella patogenesi della steatosi epatica non alcolica che è la terza causa al mondo di carcinoma del fegato.
I ricercatori hanno confrontato la flora intestinale ( profilo del microbiota, stato infiammatorio e permeabilità intestinale ) di 61 pazienti, 21 con cancro al fegato, 20 con cirrosi ma senza tumore e 20 individui sani.
Dallo studio è emerso che i pazienti con tumore epatico presentavano livelli elevati di calprotectina fecale , un marker dell'infiammazione intestinale. Inoltre presentavano un deficit di batteri benefici Akkermansia e Bifidobacterium mentre abbondavano Enterobacteriaceae e Streptococchi. Le conclusioni possibili erano che le alterazioni del microbiota intestinale potrebbero determinare lo sviluppo di un microambiente che favorisce la insorgenza del tumore mediante meccanismi infiammatori o di alterazione della immunosoppressione.
Gli studi più importanti riguardo alla relazione fra dieta e cancro sono stati fatti per il tumore al seno ma essendo i composti fitochimici coinvolti degli antiossidanti generali vi è una corrispondenza anche per gli altri tumori. Trygve Tollefsbol e colleghi hanno studiato per diversi anni il legame tra mRNAs e alimentazione nella modificazione dell'espressione dei geni coinvolti nella genesi del cancro e in particolare quello al seno (fonte Tumore al seno e ovaio N.2 mese 7 anno 2015). Uno dei fattori principali nel rischio del cancro al seno è lo stile di vita e in particolare la dieta è un fattore leader che può facilmente essere influenzato per abbassare il rischio di malattia. La dieta epigenetica, che cioè influisce sull'espressione genica, studia la metilazione del dna e le modifiche degli istoni da parte dei composti fitochimici. I composti fitochimici provengono dai vegetali cruciferi (come broccoli, cavoli, cavolfiore, cavoletti di Bruxelles) il te verde, la soia, la curcuma. La curcumina può diminuire miR-19° e il miR 19b che regola l'apoptosi (la morte) delle cellule tumorali; la genisteina contenuta nella soia, nei lupini, nelle fave e nel caffè hanno lo stesso effetto diminuendo il livello di miR-155. Il resveratrolo contenuto nelle bucce dell'uva rossa o nel vino rosso preferibilmente biologico perché contiene maggior quantità del composto fitochimico e i polifenoli contenuti nel tè verde inibiscono la crescita delle cellule cancerose con lo stesso meccanismo su diversi miRNA . L'effetto protettivo della soia ( naturalmente non transgenica) è principalmente preventivo e deve essere consumata fino dalla giovane età. Per le donne già operate per tumore al seno è consigliata in sporadiche quantità, ma non demonizzata in quanto recenti studi hanno rilevato persino un suo effetto protettivo nel caso di tumori non estrogeno-dipendenti. A questo punto risultando l'alimentazione un fattore di modificazione genetica possiamo veramente dire che siamo quello che mangiamo.
E' stato scoperto che somministrando un fitochimico come il sulforafano dalle cavolacee e i polifenoli dal tè verde si aumenta l'effetto chemioterapico di agenti come il cisplatino o il paclitaxel nel trattamento delle cellule cancerose. Pur avendo i composti fitochimici una potenza intrinseca non è però arrivato il momento di poterli usare da soli.
GLI ANTIOSSIDANTI
Poiché il cancro è una malattia provocata dalla comparsa di mutazioni del DNA tutte le sostanze in grado di interferire con esso sono potenzialmente pericolose per la sua stabilità. Tra queste vi sono i cosiddetti radicali liberi dell'ossigeno, prodotti dal metabolismo e contrastati dagli antiossidanti. I vegetali sono particolarmente ricchi di queste sostanze. Il betacarotene, precursore della vit A presente nei vegetali arancioni, il licopene presente nei pomodori, le vitamine C ed E sono potenti antiossidanti. Le ricerche hanno inoltre dimostrato la scarsa efficacia degli integratori in quanto i vegetali sono una miscela non replicabile di sostanze complementari. Anzi è stato ipotizzato che un eccesso di antiossidanti di sintesi chimica possa favorire le cellule cancerose. In uno studio pubblicato su Nature (DOI: 10. 1038/nature 16166) i ricercatori hanno dimostrato che quando sono necessarie 3 o più mutazioni genetiche (per il cancro al seno ce ne voglione diverse decine) perché si manifesti la malattia i fattori intrinseci (genetico-familiari) non riescono a spiegare da soli l'insorgenza della malattia e la determinano quindi solo per il 10% mentre l'altro 90% è determinato dai fattori estrinseci (dieta-ambiente).
LE FIBRE
Un aumentato apporto di fibre vegetali è un fattore protettivo sia per il cancro al colon che per quello al seno (specie prima della menopausa ma anche dopo) come dimostra un recentissimo studio condotto dai National Institute of Health statunitensi. Secondo lo studio Epic del 2009 che ha esaminato 60.000 soggetti i vegetariani vedrebbero ridursi del 12% il rischio di ammalarsi di tumore in generale, ma nel caso di leucemie, cancro allo stomaco e della vescica si notano riduzioni fino al 45%.
Questa è la scoperta che arriva da uno studio presentato al meeting dell'American Society for Nutrition a San Diego, da esperti della Università di New York.
Gli epidemiologi hanno arruolato 3.100 individui e seguito per parecchi anni il loro stato di salute, monitorando il tipo di alimentazione adottato da ciascuno nel tempo. Gli esperti hanno tenuto conto delle diagnosi di cancro e visto che il consumo regolare di bibite zuccherate è associato a un rischio triplo di cancro alla prostata; il consumo di cibi industriali – hamburger, hot dog, dolciumi confezionati etc – è associato a un rischio doppio di cancro alla prostata. Invece, un'alimentazione ricca di legumi, cereali integrali, frutta, verdura riduce il rischio di tumore al seno del 67%. Uno dei risultati importanti della ricerca è che il rischio di cancro è determinato dalla fonte di carboidrati portata a tavola, spiega Nour Makarem, autore dello studio. “Le fonti di carboidrati sani, quali i legumi, tendono a difenderci dal cancro, quelle non sane come i cibi dei fast food e le bibite ne aumentano il rischio. Un recente studio statunitense ha trovato che le diete ricche di grassi saturi (carne e latticini) sono legate ad un rischio complessivo più elevato del 51% di avere una forma aggressiva di cancro alla prostata (fonte Prostate cancer prostatic dis 2016).
Una metanalisi su 45 studi ha dimostrato che una dieta ricca di cereali integrali (almeno 90 grammi al giorno corrispondenti a due fette di pane integrale) consentiva una riduzione significativa del rischio di morte per tutte le cause (0,83), per tumori (0,80), per diabete (0,49). Inoltre secondo una sottoanalisi del Nurses' Health Study 2 le adolescenti che mangiavano più frutta erano più protette verso il cancro alla mammella, probabilmente anche perché sostituivano le merendine industriali con della buona frutta.
Oggi, grazie a una nuova ricerca, conosciamo in che modo i polifenoli delle mele agiscono sulle cellule malate. A firmare la scoperta, su Scientific Reports, un gruppo di ricerca coordinato dall'Istituto di scienze dell'alimentazione del Consiglio nazionale delle ricerche (Isa-Cnr) in collaborazione con il Dipartimento di chimica e biologia dell'Università di Salerno.
I ricercatori hanno analizzato tre tipi di mela - Annurca, Red Delicious, Golden Delicious - per identificare e quantificare i principali composti antiossidanti: “I polifenoli della mela ostacolano in particolare la replicazione ed espressione del DNA nelle cellule cancerose del colon, in particolare questo impedisce loro di duplicarsi e far crescere la massa tumorale”, prosegue Facchiano. “Inoltre, abbiamo scoperto che le proteine su cui i polifenoli potrebbero agire sono le stesse su cui agiscono alcuni farmaci antitumorali recentemente sviluppati. L'ipotesi, su cui sarà necessario effettuare ulteriori studi, è quindi che alcuni composti presenti nelle mele abbiano un effetto preventivo agendo proprio sugli stessi meccanismi che vengono colpiti dai farmaci”.
IN BREVE le sostanze che allungano la vita: fonte American Cancer Society
SOSTENZA | PRINCIPIO ATTIVO | AZIONE |
Alghe | fucoxantine, fucoidano | apoptosi, immunostimolante |
Curcuma | curcumina | antinfiammatorio |
Zenzero | gingerolo | antinfiammatorio |
Menta, timo, maggiorana, origano, basilico, rosmarino |
terpeni | blocco degli oncogeni |
Pomodoro | licopeni | antiossidante |
Frutti di bosco | polifenoli, antociani | antiossidante, antiangiogenetica |
Funghi (champignons) | lentinano | immunostimolante |
Pesce (sardine, etc) |
omega 3 | antimetastasi |
Arance rosse | polifenoli, terpeni | antitumorali |
Tè verde | polifenoli | antiossidante |
Vino e uva rossa |
resveratrolo | antitumorale |
Cioccolato fondente | polifenoli | antiossidante |
Soia |
fitoestrogeni | antiestrogeni |
Aglio,cipolla, scalogno | allinasi, dialisulfi | antiossidante, apoptosi |
Cavoli | sulforafano | apoptosi |
Rosmarino e salvia | carnosolo | antitumorale (riattiva la p53) |
Arance, carote, peperoni rossi | beta-criptoxantina | antitumorale polmonare |
A conferma della precedente tabella, la rivista GUT del primo luglio 2016 ha pubblicato una ricerca che ha analizzato i dati di 1659 persone con tumore intestinale in relazione al consumo di omega-3 ed ha scoperto che, se queste persone mangiavano pesce oleoso (sardine, tonno, anguilla, salmone freschi) con un'assunzione di almeno 0,3 grammi di PUFA (acidi grassi polinsaturi), avevano il 41% di probabilità in meno di morire di cancro.
ALCOL E CANCRO
La dottoressa Connor ha pubblicato il 21 luglio 2016 su Addiction uno studio che rivelava che il consumo di alcol è collegato al cancro alla testa, al collo, all'esofago, al fegato, al colon, al retto e al seno (ovviamente nelle donne).
Secondo la citata Connor, ci sono “forti prove” che evidenziano il rapporto causa - effetto tra alcol e tumore, per via dei meccanismi avviati dal primo che danneggiano gli organi. In pratica, le complicazioni potrebbero sorgere a causa di danni al DNA provocato dall'acetaldeide, prodotto del metabolismo umano, ad esempio a seguito della scissione dell'alcol, che è il cancerogeno più comune presente al mondo. Ciò, quindi, determinerebbe la comparsa dei tumori alla testa, al collo, all'esofago e al fegato. Un'altra revisione sistematica su 27 studi stabilisce per la prima volta una relazione certa tra consumo di alcol e insorgenza di cancro alla prostata. La relazione sembra dose dipendente: più alcol viene consumato più le probabilità di un tumore alla prostata aumentano.
Per quanto riguarda, invece, il cancro al seno, l'alcol è noto per incrementare i livelli di ormoni riproduttivi, come gli estrogeni che determinano la proliferazione delle cellule e, quindi, aumentano il rischio di tumore.
Le sostanze descritte sopra servono anche per attenuare gli effetti collaterali delle chemioterapie.
Non è solo la chemioterapia a provocare sgradevoli effetti collaterali: anche i nuovi farmaci biologici, la radioterapia o le conseguenze di un intervento chirurgico possono causare nausea e vomito, stipsi o diarrea, inducendo anche perdita di appetito. La nausea, in particolare, interessa quasi il 70% dei pazienti sottoposti a chemioterapia e rimane uno dei problemi più difficili da gestire anche con l'introduzione di farmaci di nuova generazione. Un aiuto inaspettato però può arrivare proprio dal cibo: piccole dosi di zenzero o prodotti a base di menta possono contribuire a ridurre questo sintomo, ma sono moltissimi gli accorgimenti che si possono adottare per seguire una dieta il più possibile corretta ed equilibrata, in modo da aiutare l'organismo a rispondere alle cure riducendo al minimo questo e altri effetti collaterali.: (fonte AIRC)
Tra le tante funzioni svolte dagli ormoni alcune riguardano anche la proliferazione delle cellule, per questo se presi a lungo o in quantità eccessiva possono agire come fattori di crescita favorendo la crescita sregolata delle cellule e quindi dei tumori. Livelli superiori alla norma di estrogeni e testosterone possono favorire l'insorgenza di tumori al seno o alla prostata.
Un aumento ormonale estrogenico può avvenire anche in caso di sovrappeso specie in menopausa perché il tessuto adiposo converte in estrogeni alcuni precursori prodotti dalla ghiandole endocrine. L'obesità causa anche un'eccessiva liberazione di insulina e di altri ormoni simili che è possono agire come fattori di crescita per i tumori. Anche un eccessivo consumo di alcol e la scarsa attività fisica possono aumentare i tassi di estrogeno e di insulina per cui aumentano il rischio di tumori al seno mediato da questi ormoni. Confermano l'effetto protettivo sul tumore al seno di più gravidanze, nelle quali vi è una pausa ormonale e una menopausa non ritardata nella quale l'azione ormonale si riduce notevolmente. Il farmaco principale usato in questi casi, il tamoxifene contrasta l'azione ormonale.
E' stato calcolato inoltre che le donne che assumevano la pillola per 5 anni avevano un rischio di tumore alla cervice doppio rispetto a quelle che non la prendevano. Questi studi sono stati fatti nel periodo in cui le pillole anticoncezionali avevano dei dosaggi maggiori ma in ogni caso chi ha famigliarità per tumori al seno non dovrebbe assumerle per sicurezza. In passato la menopausa veniva trattata con terapie ormonali ma da quando questo uso è diminuito si è osservata una riduzione dei tumori al seno in quella popolazione. Queste donne avevano un rischio doppio di tumore rispetto a quelle che non l'assumevano. L'effetto estroprogestinico sul tumore all'endometrio è più complesso e questo sembra più legato alla terapia con soli progestinici.(fonte AIRC)
Le cellule cancerose hanno un metabolismo diverso da quelle normali. Si tratta di un fenomeno ben noto dal 1931, quando Warburg vinse il Nobel con la scoperta che le cellule tumorali sopravvivevano grazie alla glicolisi anaerobia (scissione del glucosio con l'aiuto dell'ossigeno). La presenza di glucosio favoriva quindi la crescita tumorale. Da qui la sua raccomandazione di ridurre gli zuccheri semplici e le proteine (convertite dal fegato in glucosio). Sedentarietà e iperalimentazione secondo il Nobel potevano favorire le proliferazioni tumorali.
Dopo aver valutato tutti gli studi scientifici sul rapporto fra dieta e tumori i ricercatori del Fondo mondiale per la ricerca sul cancro raccomandano: “basate la dieta quotidiana prevalentemente su cibi di provenienza vegetale, non industrialmente raffinati, con una ampia varietà di cereali integrali, legumi, verdure e frutta.” Naturalmente i cereali integrali trattengono una quantità maggiore di pesticidi per cui è opportuno cercare produzioni a KM 0, a lotta integrata o meglio biologiche.
Franco Berrino, responsabile di medicina preventiva e predittiva all'Istituto tumori di Milano afferma che una delle conoscenze più solide della ricerca è che chi è in sovrappeso si ammala di più di vari tipi di tumore e chi si è ammalato, se in sovrappeso, ha più difficoltà a guarire. Lo stesso è confermato per il momento per i tumori a colon e al seno è che chi fa esercizio fisico si ammala di meno e chi si è ammalato, se fa esercizio fisico, si ammala di meno. L'esercizio fisico minimo è di 30 minuti al giorno consecutivi. Un eccesso di grasso depositato nell'addome,determina livelli più alti di glucosio, insulina, fattori di crescita e di fattori di infiammazione. Il latte vaccino è uno dei cibi più in discussione. Chi mangia latte e latticini e ha una dieta ricca di proteine ha più alti livelli nel sangue di IGF-1, uno dei più importanti fattori di crescita insulino -simile. Le sue raccomandazioni, recuperabili in internet, sono tenere bassa la glicemia, tenere bassa l'insulina, tenere bassi i livelli di infiammazione provocata dai cibi animali e consiglia prudenza con i cibi ricchi di poliamine ( sostanze indispensabili alla proliferazione cellulare).
Uno studio di un gruppo di ricercatori dell'università di Genova pubblicato su Cell Cycle emerge che le cellule tumorali partono proprio dallo zucchero per aumentare il loro volume. Il fattore di crescita IGF-1 insulino- simile porta all'attivazione dell'enzima tumorale PKM2l. La novità consiste nel fatto che la metformina, un farmaco basilare per il diabete, sarebbe in grado di bloccare l'azione del fattore di crescita IGF1 e di ostacolare quindi l'arrivo di zuccheri nelle cellule tumorali.Uno studio pubblicato su Science Advance suggerisce una nuova via contro il cancro, mirata a tagliare il suo approvvigionamento energetico. La metformina, un farmaco usato nel diabete, associata alla sirosingopina, un antipertensivo, potrebbero rappresentare un cocktail ideale da questo punto di vista.E' quanto abbiamo osservato – rivela il primo autore dello studio, il dottor Don Benjamin del Biozentrum dell' Università di Basilea - in campioni prelevati a pazienti leucemici; la pressoché totalità delle cellule tumorali sono state uccise da questo cocktail, utilizzato a dosaggi non tossici per le cellule normali. L'effetto è stato osservato solo sulle cellule tumorali, mentre quelle normali, da donatori sani, non sono risultate influenzate dal trattamento”.Lo stesso esperimento, ripetuto su topi con tumori del fegato, ha prodotto una riduzione del volume e dei noduli tumorali, che in alcuni animali sono scomparsi del tutto. Secondo gli autori di questo studio, questo effetto è dovuto al fatto che la metformina esercita un'azione di blocco sulla catena respiratoria mitocondriale che fornisce energia alla cellula; da parte sua la sirosingopina blocca la glicolisi anaerobica, affamando ulteriormente il tumore.
GLI ORMONI NELLA CARNE
Negli animali si concentrano i pesticidi usati per la coltivazione di vegetali che formano il loro mangime. L'80% dei pesticidi e fertilizzanti viene utilizzato per la coltivazione dei vegetali destinati all'alimentazione degli animali d'allevamento. Per un grammo di proteine che l'animale “produce”, deve mangiare 16 grammi di proteine vegetali. Questo implica che i pesticidi e i fertilizzanti si ritrovino “concentrati” nella carne degli animali, e quindi chi si ciba di carne è costretto ad ingerirne molti di più rispetto a quando accadrebbe se consumasse direttamente i vegetali. Inoltre negli allevamenti intensivi gli animali vengono imbottiti di farmaci per cercare di scongiurare le malattie causate dallo stress da sovraffollamento e dalla loro debolezza congenita, frutto di manipolazioni genetiche che danno luogo ad animali “iperproduttivi”, ma che si ammalano molto facilmente.
In Europa vengono consumate 5000 tonnellate di antibiotici legali, di cui 1500 per favorire la crescita artificiale. A queste vanno aggiunte tutte le sostanze illegali largamente impiegate, che molto difficilmente vengono scoperte nei controlli veterinari. L'abuso di antibiotici è pericoloso perchè è all'origine del fenomeno della resistenza dei batteri, che “allenati” da questa continua esposizione agli antibiotici, si adattano. Inoltre, gli estrogeni sempre presenti in ogni tipo di carne, provocano anche diverse disfunzioni a livello ormonale negli esseri umani (esempio un aumento dei casi di telarca). L'impiego di antibiotici negli allevamenti è però subordinato al rispetto di regole ben precise, mentre l'impiego di ormoni della crescita (GnRH) è stato vietato in Europa da 35anni. Gli antibiotici non vengono dati a priori, ma possono essere utilizzati esclusivamente se autorizzati dalle autorità sanitarie. Negli allevamenti italiani la somministrazione di ormoni ad animali le cui carni o prodotti siano destinati al consumo umano, sono strettamente limitati ad alcuni trattamenti terapeutici e zootecnici. Qualsiasi altra somministrazione, come quella volta a stimolare la crescita, è assolutamente vietata – cosa che in paesi come Spagna e Romania, dalla quale provengono grossa parte dei vitelli da carne allevati poi in Italia, è invece tuttora consentita. L'impiego di GnRH in Italia, invece, è stato vietato dal 2006. L'impiego di antibiotici dovrebbe comunque essere limitato nel tempo e gli animali potrebbero essere macellati soltanto dopo che i farmaci siano stati completamente smaltiti dall'animale o quantomeno i residui siano a concentrazioni del tutto innocue per la salute umana.
Questi ormoni utilizzati in zootecnia, non creano problemi solamente all'essere umano, ma vanno a creare anche grossi problemi d'impatto ambientale. Gli ormoni per favorire la crescita dei bovini hanno un impatto ambientale negativo per i fiumi e i pesci. Queste sostanze tendono a concentrarsi e a persistere nell'ambiente per lunghi periodi. Il TBA, un analogo sintetico del testosterone con effetti sul sistema endocrino, attraverso il letame dei bovini (utilizzato come fertilizzante) finisce in fiumi e torrenti. Una volta nell'acqua, sono in grado di interferire con i processi riproduttivi e i comportamenti dei pesci e di altre forme di vita acquatica. Questi composti hanno il potenziale di distruggere interi ecosistemi. Ci aspettiamo, quindi, impatti che si estendono per tutta la catena alimentare acquatica. Grazie all'uso di strumentazioni sofisticate, si riesce a individuare nel sangue o nelle urine di animali vivi, la presenza di sostanze illecite e a caratterizzarle con precisione. I metodi chimici però sono molto costosi e funzionano solo dopo un breve intervallo di tempo da quando è stata somministrata all'animale la sostanza vietata. Se sono trascorsi un paio di giorni dal trattamento, le analisi non sono in grado di identificare l'illecito. Ecco perchè molte sostanze illecite vengono utilizzate in zootecnia, senza essere “scoperte.
Nel frattempo, come dovrebbe reagire il consumatore sapendo che ben 15 campioni su 100 di carni avviate al macello non sono conformi alla legge? È sempre bene rivolgersi a fornitori di fiducia, magari a produttori che si riescono a conoscere meglio, anche se la carne può costare un po' di più.Inutile quindi dire che dovremmo evitare di comprare carne dalle grandi catene. Questo perché la rincorsa al ribasso del prezzo anche attraverso l'acquisto in mercati esteri con normative più compiacenti porta ad una diffusione a macchia d'olio di questi trattamenti ormonali per avere una produzione sopraelevata, andando quindi ad interferire anche con il benessere animale.Inoltre la rincorsa al ribasso del prezzo della carne sta creando grandi difficoltà agli allevatori più responsabili che non considerano gli animali una macchina da carne e che non vogliono produrre “cibi spazzatura”.
L'attività fisica si conferma come un potente alleato nella prevenzione dei tumori, abbattendone il rischio per ben 13 tipi. In particolare, correre, camminare o nuotare regolarmente diminuisce di oltre il 20% il rischio di ammalarsi di alcuni tumori come quello a fegato e rene e di oltre il 40% di tumore all'esofago. A confermare l'importanza dell'allenamento aerobico come scudo protettivo è un ampio studio pubblicato sulla rivista JAMA Internal Medicine. L'associazione tra esercizio fisico e cancro è già stata dimostrata da precedenti studi così come l'importanza dell'alimentazione e di coretti stili di vita, anche . Ogni anno in Italia si registrano circa 363.000 nuove diagnosi di tumore e 177.000 sono le morti. La nuova ricerca, condotta da ricercatori del National Cancer Institute statunitense guidati da Steven Moore, si distingue per aver esaminato i dati di ben 1,44 milioni di persone, dai 19 ai 98 anni, residenti negli Stati Uniti e in Europa.
LO STUDIO
I partecipanti sono stati seguiti per una media di 11 anni ed è stato chiesto di riportare il tipo e la quantità di attività effettuata nel tempo libero, come camminare, correre o nuotare. In media coloro che effettuavano attività fisica lo facevano per circa 150 minuti a settimana, ovvero un allenamento di 50 minuti per tre volte a settimana, che corrisponde a quanto previsto dalle linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità per l'Attività fisica 2016-2020 di recente emanate.
Durante il periodo di studio, circa 187.000 di loro si sono ammalati di tumore, ma coloro che avevano riferito di praticare attività fisica avevano avuto un rischio complessivamente più basso del 7% rispetto a coloro che ne avevano fatta meno. Andando nel dettaglio, lo studio ha confermato un minor rischio di tumori della mammella (10%), al colon (16%) e all'endometrio (21%), già evidenziati da precedenti ricerche. Maggiori riduzioni di rischio erano evidenti per adenocarcinoma esofageo (42%), cancro al fegato (27%), cardias, ovvero la valvola che collega esofago e stomaco (22%), rene (23%) e leucemia mieloide (20%). Hanno mostrato riduzioni meno significative il mieloma (17%), il tumore della testa e del collo (15%), del retto (13%) e della vescica (13%), mentre per la prostata si è registrato un aumento del 5%. Quanto al cancro al polmone il rischio era ridotto solo qualora i pazienti fossero fumatori, attuali ed ex. Praticare regolarmente attività fisica potrebbe ridurre il rischio di cancro al seno. Le donne sedentarie infatti hanno un rischio aumentato del 71% rispetto a quelle che fanno sport. A rivelarlo è uno studio epidemiologico su 698 pazienti pubblicato su Gynecologic Oncology, da un gruppo di epidemiologi del Centro Nazionale per l'Epidemiologia, Carlos III Institute of Health, a Madrid.
La maggior parte delle associazioni, sottolineano i ricercatori, sono state confermate a prescindere dalla massa grassa, il che suggerisce che l'esercizio fisico agisce attraverso meccanismi diversi oltre alla sola riduzione del peso corporeo, forse influenzando la produzione di ormoni e anche con un effetto antinfiammatorio. ( Salute e Prevenzione maggio 2016) La riduzione degli zuccheri nel sangue indotta dall'attività fisica potrebbe essere un'altra spiegazione. IL RUOLO DELLO YOGA NEI TUMORI
Un recente studio condotto su 50 pazienti da Neha Vapiwala dell’università della Pennsylvania sullo yoga come intervento per alleviare gli effetti collaterali del trattamento dei tumori prostatici ha suscitato inizialmente molti dubbi, dato che gli stessi ricercatori si chiedevano se i pazienti avrebbero accettato di partecipare.Lo yoga è stato studiato come strumento per mitigare gli effetti collaterali del trattamento del tumore mammario, ma mai prima d’ora nel contesto del tumore prostatico, ma sussistono preconcetti in base ai quali gli uomini non lo vogliono praticare e che i pazienti oncologici di sesso maschile non siano interessati a questo genere di cose. Lo studio ha invece riscosso molto successo ed il numero di partecipanti è stato limitato solamente dalle difficoltà di partecipazione alle sessioni. Lo yoga, comunque, si è dimostrato in grado di alleviare gli effetti collaterali di chemioterapia e radioterapia e della terapia ormonale, portano ad una riduzione del senso di affaticamento ed ad un miglioramento della funzionalità sessuale ed urinaria, con conseguenze notevolmente positive sulla qualità della vita, laddove allo stesso tempo i soggetti che non hanno praticato yoga sono andati incontro ad un sostanziale peggioramento di tutti questi esiti.
Il presente studio, oltre a dimostrate l’interesse relativamente elevato degli uomini per lo yoga, che non era emerso in altre indagini, rappresenta anche un esempio di oncologia integrativa laddove una terapia complementare viene impiantata nel regime terapeutico oncologico. I suoi effetti, comunque, potrebbero anche essere almeno in parte dovuti ad elementi collaterali come la socializzazione o l’attenzione. Il possibile meccanismo d’azione dello yoga è incerrto, ma un’estensione dello studio potrebbe rivelare se i suoi effetti sono durevoli, se esiste un sottogruppo di pazienti portato a proseguire la pratica e ad ottenere ulteriori benefici e l’eventuale differenza con un regime d’esercizio generico.
Il tipo di yoga impiegato nel presente studio è stato l’Eischens, che rappresenta una diramazione del meglio noto lyengar. L’Eischens si incentra maggiormente sull’energia e sul suo spostamento nel corpo che sulla complessità del posizionamento del corpo stesso, affidandosi anche a supporti come sedie o cinture per assumere le posizioni richieste.
Queste differenze consentono ai soggetti più anziani e meno flessibili ed ai soggetti con tipologie corporee diverse di praticare con successo lo yoga. (Int J Radiat Oncol Biol Physics online 2017, pubblicato il 6/4)
Gen 23,2018 0 Comments
Nei pazienti con linfoma, l’incremento dell’attività fisica riduce il rischio di mortalità da qualsiasi causa e da linfoma. Questo impatto positivo non era mai stato dimostrato in precedenza, anche se l’indicazione a fare esercizio per questi pazienti era già diffusa, come affermato da Priyanka Pophall della Mayo Clinic di Rochester, autrice di uno studio su 4.087 pazienti.
Secondo i ricercatori, è importante incoraggiare l’attività fisica in questi pazienti, anche se hanno terminato il trattamento e vengono soltanto monitorati su base regolare. Non è stata individuata alcuna soglia precisa di attività fisica, ma l’effetto riguarda semplicemente la pratica di almeno 150 minuti di attività alla settimana, e quindi la raccomandazione per il paziente è soltanto quella di mantenersi attivo.
E’ noto che l’esercizio migliora la sopravvivenza nella popolazione generale per via della salute cardiovascolare, e sussiste un collegamento fra esercizio e miglioramento della sopravvivenza in altri tumori, come quelli mammari, ma esso non era mai stato dimostrato nei linfomi.
I pazienti in genere sono molto ansiosi quando il trattamento termina, e desiderano sapere cosa possono fare. In precedenza non c’era nulla da poter consigliare che il paziente potesse tenere sotto il proprio controllo diretto, mentre invece l’attività fisica è qualcosa che il paziente può controllare direttamente, e restituire il controllo dopo un fenomeno che appare schiacciante e disarmante è di particolare importanza. (Blood 2017; 130: 914)
Il pensare che la scarsa capacità di comunicazione e relazione degli operatori sanitari verso il malato di cancro dipenda solo da una mancanza di formazione universitaria o post-universitaria risolvibile con qualche corso è un errore. Nel momento della diagnosi di una malattia inguaribile non è solo il paziente o i suoi famigliari che si sentono angosciati ma anche il medico. Il medico vive infatti la perdita di significato della medicina ovvero il fallimento di ciò che ha studiato e in cui ha creduto; si sente impotente e con una perdita di ruolo. La sua reazione è quella di trincerarsi dietro ai protocolli predefiniti come in una sorta di autodifesa, non tenendo conto dello stile di vita e delle aspettative del paziente. Ma un'altra lutto ben più subdolo e pericoloso aspetta il medico ed è quello della sua identità psichica già minata dalla perdita del suo significato operativo in crisi nel suo ruolo di medico addestrato per guarire o per migliorare la gestione di una malattia cronica e che ora si trova di fronte ad una patologia non suscettibile di miglioramento. Il medico è colpito dalla ferita narcisistica provocata dall ‘impotenza personale e professionale. Vive un senso di colpa professionale, magari per non avere colto anche i segnali di malattia più precoci e generici. Segni e sintomi talvolta talmente generici da essere inutili, a meno che non si pensi ad una patologia inguaribile di fronte ad ogni sintomo anche il più innocente. E' consapevole che un suo comportamento professionale troppo stringente avviterebbe il paziente in una spirale di accertamenti ed ansia intollerabili. Quindi alla variabilità dell'atteggiamento indotta dalla brutta esperienza professionale si aggiunge la variabilità, per lo più negata dell'equilibrio psichico, del livello di autostima e del momento psicologico che il medico sta attraversando. Tutti questi fattori sono determinanti per la sopportazione di tale scacco professionale. In uno studio francese sulle cause di burn-out dei medici di famiglia era presente anche l'ingresso nelle cure palliative di un proprio paziente. Spesso dietro la scarsa empatia comunicativa degli specialisti oncologi, provocata non solo da un lavoro che avrebbe bisogno di più tempo dedicato al paziente, si nasconde anche la volontà inconscia di non entrare in una relazione troppo stretta con il paziente in pericolo di vita, per proteggersi nel caso il paziente non ce la facesse.
Può essere tutto questo una giustificazione alla scarsa disponibilità empatica degli operatori sanitari? Il dover essere sempre nei panni di chi risolve i problemi e non li complica non può essere un peso troppo grosso anche per un professionista esperto? Non si rischia così di negare ciò che è presente ma si nasconde sempre, che anche il medico può avere dei momenti di fragilità ? Se si continua a negarlo, come si è usi nello status quo dell'esercizio della professione medica, non si affronteranno mai i seguenti problemi basilari: primo il tipo di personalità del professionista e quindi il suo bisogno di essere addestrato, come lo sono gli psicanalisti, ad affrontare con sicurezza le angosce dei pazienti, secondo la possibilità dello stesso ad accedere ad una rete di supporti sia psicologici che clinici che possano supervisionare il suo lavoro e le sue emozioni.
I gruppi Balint, nei quali si ritrovavano i medici di famiglia per analizzare le proprie emozioni nella relazione medico-paziente, avevano questa funzione. Può infastidire mettere a nudo le proprie problematiche personali ma l'onestà rende più sincera e produttiva una relazione e soprattutto una dichiarazione di imperfezione o di impotenza può spingere il paziente a ridiventare attivo e padrone del proprio destino in una visione nuova del rapporto medico paziente che avvia una pratica alla pari, collaborativa e non paternalistico-direttiva. Questo nuovo tipo di relazione forse non sarà appropriato verso tutti i pazienti: alcuni in qualche momento preferiscono essere accuditi completamente e delegare ogni scelta all'operatore sanitario, ma molti ormai sono pronti a riprendersi il il governo delle proprie cure nelle mani. La negazione della componente emotiva bidirezionale nella relazione medico-paziente è matrice degli scarsi risultati di ogni progetto formativo ad hoc: il medico non deve solo saper essere ma soprattutto essere se stesso di fronte al paziente e alle sue problematiche. La spontaneità viene definita dappertutto elemento essenziale della relazione e forse è proprio questa che deve essere formata e crescere, naturalmente affrancandola dai problemi personali e pensando in ogni momento al benessere del paziente.
Una volta stabilito che i geni determinano e sono quindi responsabili delle principali funzioni biologiche, è apparso naturale per i genetisti identificare con precisione i geni che causano specifiche malattie per poterle prevenire o curare modificando o sostituendo i geni difettosi. Questo era in gran parte il sogno nascosto del Progetto Genoma Umano, un sogno che non si è realizzato.(1)
Infatti si è scoperto che c'è un divario immenso tra l'abilità di identificare i geni che sono coinvolti nello sviluppo di una malattia e la comprensione della loro funzione specifica; per non parlare della possibilità di intervenire su di loro che è ancora in alto mare.(1)
Inizialmente si era diffusa l'idea di associare malattie specifiche a singoli geni (esempio i geni del tumore alla mammella) ma si è visto che le malattie che coinvolgono un solo gene sono estremamente rare, meno del 2% di tutte le malattie umane.Anzi con il moltiplicarsi dei test genetici ( o meglio dell'analisi mutazionale dei geni) si è notato che sempre più spesso i geni BRCA1 e BRCA2, quelli che indicherebbero una forma ereditaria di carcinoma della mammella, alcune volte non sono presenti nemmeno nelle donne che hanno avuto il tumore della mammella. Nel caso di una malattia delle coronarie, per esempio, sono stati identificati più di 100 geni responsabili di una qualche interazione. Nel tumore del seno ne sono stati identificati per ora più di 80. Molto spesso delle analisi genetiche ad ampio raggio ci dicono che ognuno di noi ha un ampio numero di mutazioni e evidentemente solo pochissime producono una malattia. Ritorna qui con forza l'ipotesi, già affrontata precedentemente, di una preponderanza della pressione ambientale sulla modificazione genetica. Promettenti ma ancora vaghi sono gli studi sulle modificazioni genetiche indotte dal tipo di flora intestinale individuale, flora intestinale che si tenta perciò di modificare con dei probiotici.(1)
L'idea fondamentale del determinismo genetico per cui i geni determinano il comportamento cellulare, continua ad essere promossa dall'industria delle biotecnologie ed è costantemente citata dai media sino a diventare un'opinione medico-scientifica diffusa nonostante i progressi nel campo la dimostrino già obsoleta almeno per le malattie più comuni.
Fortunatamente la storia dei tumori sta cambiando. L'Italia si colloca al primo posto per guarigione da tumore in Europa. In 17 anni, i pazienti che hanno sconfitto il cancro nel nostro paese sono aumentati del 18% per i maschi e del 10% delle donne. Il primato italiano per le guarigioni, afferma l'AIOM, è soprattutto nei tumori più frequenti come quelli del colon (60,8% versus 57%) del seno (85,5% vs 81,8%), della prostata (86,6% vs 83,4%). Sono in via di miglioramento le conoscenze riguardanti la possibilità poco usuale di leucemia o di altri tumori secondari dopo chemio o radioterapia legati sembra ad alcuni fattori genetici. Inoltre allo stato attuale si stanno affermando nuove armi come l'immuno-oncologia che sta dimostrando di migliorare in maniera significativa la sopravvivenza per il melanoma, il mieloma, il tumore al polmone e al rene pur essendo gravata ancora da pesanti effetti collaterali. Recentemente è stato pubblicato sul "Journal of allergy and clinical Immunology" uno studio italiano su come vengano inattivate dalle cellule tumorali le cellule del sistema immunitario chiamate natural killer deputate al loro riconoscimento e alla loro distruzione . Queste molecole, presenti sulla superficie esterna delle cellule tumorali (PDL-1), spengono le natural killer, bloccando così il controllo immunitario. Questa azione si potrà prevenire in futuro con degli anticorpi monoclonali, ma non si sa ancora con certezza per quali tumori. Stabilizzazioni impensabili sono state descritte dall'utilizzo di diete estreme come quella vegana, macrobiotica o kousmine nelle quali l'elemento comune è la drastica riduzione delle proteine di origine animale e degli zuccheri raffinati. Risale a poco tempo fa un articolo in cui si prospettava un parziale effetto antiblastico della metformina, un farmaco di prima linea per il diabete, che agisce bloccando l'accesso degli zuccheri nella cellula cancerosa che avendo notoriamente un metabolismo elevato per la necessità di una replicazione veloce si troverebbe così inibita. Qualche stabilizzazione si è ottenuta anche dalle cosiddette terapie alternative . Promettenti sviluppi vengono dallo studio della genetica sia per la predisposizione alla malattia sia per le resistenze alle cure antiblastiche. Già in alcuni ospedali universitari la mappazione genica precede la terapia nella cosi detta medicina di precisione. Il recente utilizzo di Mammaprint, che consente un'analisi genomica di 70 geni, ha permesso una consistente riduzione della necessità di chemioterapia nelle donne con tumore al seno.
Tra le donne ad alto rischio clinico nello studio Mindac, l'utilizzo di MammaPrint per guidare il trattamento chemioterapico ha determinato una riduzione nell'uso della chemioterapia adiuvante nel 46,2% delle pazienti. La sopravvivenza a cinque anni senza metastasi sarebbe stata del 95,0% con la sola strategia di rischio clinico e del 94,7% con la sola strategia di rischio genomico; in quest'ultimo caso, quindi, si sono ottenuti risultati simili con un carico molto più basso della chemioterapia.
IL MIGLIORAMENTO DELLA SOPRAVVIVENZA
Il miglioramento della sopravvivenza dei malati di cancro in questi ultimi anni non è ancora riconosciuto per cui per il 41% degli italiani non esistono ancora terapie efficaci e la maggioranza del 54% ritiene che si debba ancora parlare di male incurabile. Sei malati su dieci ritengono ancora che modificare le proprie abitudini alimentari non aiuti ad affrontare il cancro. Il 40% dei malati oncologici ritiene che l'attività fisica non apporti alcun beneficio anzi il 23% pensa che possa aggravare la malattia . Informazioni queste tutte da fonti da ricerche organizzate dalla AIOM (Associazione Italiana Oncologia Medica). Nuove possibilità emergono anche nel campo della radioterapia (vedi sotto)spesso poco utile per la radioresistenza di alcuni tumori. A Pavia è già in funzione il sincrotone che con l'accelerazione aumenta la potenza della radioterapia di tre volte. A Trento, ma anche in Puglia, è in attività da poco la protonterapia ideata da alcuni fisici italiani. Anche negli ospedali periferici si inizia con la crio-ablazione, la distruzione di alcuni tipi (pelle, polmone, ossa, reni) di masse tumorali con il gelo e la termoablazione mediante radiofrequenze e/o la cementoplastica per le metastasi ossee. Tutte queste ricerche sono ancora in fase sperimentale ma si stanno dimostrando promettenti. Molti malati con metastasi ora sopravvivono anche 10 o 15 anni e siamo all'inizio.
Altri nuovi campi di azione nell'ambito delle terapie mirate oncologiche riguardano:
1) la terapia genica: una cellula sana si trasforma in cellula tumorale soprattutto a causa di fattori ambientali e stili di vita, ma in rari casi (nel 2-3%) alcuni individui ereditano nel patrimonio cromosomico alcuni geni alterati (che possono aumentare il rischio di ammalarsi di particolari tipi di cancro). I ricercatori stanno studiando come "riparare", bloccare o sostituire questi geni in modo che il tumore non si sviluppi. Altri tipi di terapia genica modificano i geni delle cellule cancerose, per renderle più sensibili ai farmaci antitumorali; fonte IARC
2) le nanotecnologie: oltre a una diagnosi sempre più precoce e precisa, le nanotecnologie consentiranno di colpire in maniera sempre più mirata le cellule tumorali, trasportando per esempio gli agenti tossici al loro interno, o concentrando con precisione l'azione delle radiazioni ; fonte IARC .
3) la radioimmunoterapia: la radioimmunoterapia combina meccanismi biologici (anticorpi monoclonali, peptidi specifici) e radiolitici per distruggere le cellule tumorali. I ricercatori, guidati da Flavio Forrer, dell'Ospedale universitario di Basilea, hanno sperimentato l'uso del 177Lu, un radionuclide, perché ha "un range di penetrazione tissutale relativamente breve" e può causare meno danni ai tessuti circostanti di altre opzioni. (fonte IARC) Queste terapie sono molto costose nell'ordine di 100-200 mila euro.
4) le ablazioni praticate dalla Radiologia interventistica oncologica.
a) termoablazione a radiofrequenze o ultimamente mediante microonde
b) crioablazione : iniezioni di argon e elio che provocano il congelamento locale (ice-ball);
Queste tecniche sono già presenti nelle linee guida americane ma inspiegabilmente non in quelle europee e molti oncologi sono ancora scettici sul loro uso per cui solitamente non vengono consigliate nonostante la loro efficacia almeno per i piccoli tumori, il costo ridotto e il minor disagio per i pazienti (dimessi al massimo in seconda giornata). La criotepaia è utilizzata comunque anche per tumori di dimensioni di circa 10 cmm( Congresso sulla crioablazione del 21 nov 2016).
5) In via ancora sperimentale si potrà in un futuro prossimo risalire al profilo molecolare dei tumori attraverso un semplice prelievo di sangue invece che con costose e invasive biopsie. In questa prima fase solo per i tumori al polmone. Questa la grande speranza contenuta in uno studio pubblicato nel 2016 su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) da ricercatori dell'Università di Stanford, U.S.A.. Il test si basa sull'analisi delle cellule tumorali circolanti, identificate mediante anticorpi, e potrebbe rivoluzionare il trattamento dei tumori, in quanto un monitoraggio serrato del DNA tumorale consentirebbe di studiare in maniera non invasiva l'evoluzione nel tempo dei tumori, di cogliere in fase precoce la comparsa di resistenza ai trattamenti e dunque di modificare la traiettoria della terapia.In più, elemento non da poco, il nuovo test potrebbe avere un costo di appena 30 dollari, oltre ad essere molto rapido (circa 5 ore) di tanti altri approcci diagnostici.
6) Il decreto sui nuovi LEA (Livelli Minimi di Assistenza) del Sistema Sanitario italiano prevede l'erogazione a livello nazionale dei trattamenti di adroterapia (una radioterapia più potente a base di protoni e ioni carbonio) per dieci patologie tumorali: cordomi e condrosarcomi della base del cranio e del rachide, tumori del tronco encefalico e del midollo spinale, sarcomi del distretto cervico-cefalico, paraspinali, retroperitoneali e pelvici, sarcomi delle estremità resistenti alla radioterapia tradizionale (osteosarcoma, condrosarcoma), meningiomi intracranici in sedi critiche (stretta adiacenza alle vie ottiche e al tronco encefalico), tumori orbitari e periorbitari (ad esempio seni paranasali), incluso il melanoma oculare, carcinoma adenoideo-cistico delle ghiandole salivari, tumori solidi pediatrici, tumori in pazienti affetti da sindromi genetiche e malattie del collageno associate ad un'aumentata radiosensibilità, recidive che richiedono il ritrattamento in un'area già precedentemente sottoposta a radioterapia. Precedentemente questo trattamento doveva essere autorizzato dalla regione di provenienza che se ne assumeva l'onere economico.
L'evoluzione della malattia cancerosa nella maggior parte dei casi è quindi verso la cronicizzazione e la stabilizzazione assumendo così le caratteristiche di una patologia degenerativa comune ad alto impatto sociale. La ricerca e la diffusione delle nuove terapie è rallentata però dal monopolio nel settore delle case farmaceutiche che, uniche a finanziare congressi per gli specialisti, diffondono solo informazioni di studi su farmaci propri; qualcosa fanno le fondazioni che purtroppo spesso dipendono per i finanziamenti proprio dalle case farmaceutiche, poco niente fa la ricerca pubblica in contraddizione col fatto che poi la cura è a carico dello stato.
Anonimo zen
SE VUOI CORRERE PIU' VELOCE LEVATI L'ARMATURA
ALLEGATO B
L’ERRORE MEDICO
Fenomenologia dei processi erronei in medicina clinica
Introduzione
A lungo in passato si è discusso se la medicina facesse parte delle scienze esatte (fisica, chimica, etc ) o delle scienze sociali ( economia, urbanistica etc.).
Nella realtà odierna la linea di demarcazione tra queste due gruppi di scienze non è più così definita.
L’idea che ci facciamo dalle recenti ricerche su teoria quantistica e microfisica è che il primato della funzione continua individuabile come il paradigma della conoscenza e della previsione è in via di estinzione. In questo campo non è vero che l’incertezza diminuisce a man mano che aumenta la precisione : aumenta invece anch’essa per la natura stessa della materia investigata (1)
La sicurezza delle scienze esatte si è incrinata con la scoperta che i sistemi stabili , presupposto del determinismo, sono meno prevedibili di quanto ci si aspettasse e che la previsione è possibile solo in certe aree (dette isole di determinismo) (1). E’ plausibile che gran parte della medicina appartenga a questa pragmatica scientifica postmoderna.
Per di più la netta contrapposizione tra scienza della natura e scienza dello spirito non sembra appropriata alla medicina dove invece le connessioni cosmologiche e antropologiche sono dominanti ; per capire la salute e la malattia e per procedere alla diagnosi e alla terapia è necessario far ricorso sia alla natura che alla cultura. (4) Il sapere scientifico poi non è tutto il sapere, è sempre stato accanto, in competizione, in conflitto con un altro tipo di sapere : il sapere narrativo,nel quale convergono le idee di saper fare, saper vivere, saper ascoltare e così via che rappresentano una formazione estesa di competenze che tutti gli osservatori concordano essere preminente sulla formulazione del sapere tradizionale. Non è possibile inoltre
esprimere giudizi né sull’esistenza né sul valore del narrativo a partire dal scientifico o viceversa: i criteri pertinenti non sono gli stessi nei due casi. (1)
Ora ermeneutica e fenomenologia sono le nuove parole chiave : l’ermeneutica si riferisce alla storia del malato , alle dimensioni narrative sia della condizione del malato che della terapia e del rapporto medico paziente; la fenomenologia intende riprodurre in modo descrittivo l’incontro clinico e le sue ripercussioni. (4)
L’efficacia della medicina come scienza pratica quindi è complicata dall’esperienza soggettiva del paziente e del medico che deve essere oggettivata.
Popper affermava che la nostra scienza non è conoscenza (episteme) : non può mai pretendere di aver raggiunto la verità e che in questa concezione del metodo scientifico possiamo imparare dai nostri sbagli.
L ‘errore è il motore della crescita della conoscenza, esso è l’immane potenza della ricerca e
la metodologia scientifica è un articolato insieme di prescrizioni miranti alla scoperta dell’errore che puntano a tenere in stato d’assedio ogni teoria controllabile e per questo non bisogna cadere nella tentazione di proteggere l’errore.
. La via dell’errore è la medesima di quella della verità visto che tutta la nostra conoscenza è ipotetica e congetturale(3).
In medicina al contrario l’errore è sottaciuto, rimosso, riposto nell’ armadio degli scheletri del singolo medico negandogli il suo valore maieutico e formativo. Timori di ripercussioni legali per malpractice, di ricadute sulla propria carriera e nella credibilità verso i pazienti spingono la classe medica a rifiutarsi di utilizzare questo formidabile strumento di conoscenza , di cambiamento e di miglioramento della qualità dell’assistenza erogata.
ATTENDIBILITA’
DELLE CONOSCENZE MEDICHE
I medici nella pratica clinica i hanno di fronte a sé un soggetto originale che solo parzialmente risponde a dei criteri o caratteristiche di una popolazione media.
Il fattore di rischio è infatti un concetto probabilistico che attiene ad un aggregato di individui e non immediatamente al singolo individuo( Geoffri Rose 92). Anche la più precisa strategia della individuazione dei sottogruppi di popolazione o la stratificazione del rischio individuale per valutare meglio quello globale non è in grado di dare certezze.
Con questo individuo originale le teorie e le pratiche mediche correnti vanno sperimentate e soppesate con attenzione. La principale fonte di errore consiste proprio nel non considerare l’individuo e la propria storia come elementi che ci costringono ad una indagine minuziosa prima durante e dopo l’atto medico in quanto trattasi di un intervento che, seppur protetto dall’autorevolezza dell’EBM, linee guida, consensus conferences, si configura in parte come sperimentale e richiede quindi cautele e procedure simili. D’altra parte anche il principio del consenso sembra insufficiente come criterio di validazione. (1 )
Il Lancet cominciò a denunciare anni fa che circa il 70% degli studi sperimentali di comparazione pubblicati sulle riviste scientifiche possedeva una debole significatività statistica ed era quindi discutibile. Di.recente sul British Medical Journal sono comparsi altri articoli che mostravano come l’industria sottoponga per la pubblicazione soprattutto studi positivi ( cioè che dimostrano un progresso rispetto al presente presentando nuove molecole o procedure come più vantaggiose delle precedenti) e Jama (2004) afferma che per questo motivo solo la metà degli studi clinici condotti negli ultimi 56 anni sono stati riportati in letteratura.
Molteplici infatti possono essere le forme di condizionamento dell’esito di una ricerca, si possono adottare degli end point favorevoli, selezionare i pazienti o utilizzare pazienti i cui risultati non siano trasferibili (es. la maggioranza degli studi ha come primo criterio di esclusione l’età sopra i 70 anni) , scegliere farmaci di controllo meno efficaci o non pertinenti, adottare protocolli già predisposti , usare dosaggi differenti nelle ricerche , etc..
Il medico, già costretto ad un aggiornamento continuo per una preparazione che va in obsolescenza dopo appena 10 anni , si ritrova così a dover percorrere la strada difficile della valutazione delle fonti di informazione non solo dal punto di vista clinico ma anche statistico. .Dal punto di vista epistemologico quindi appare necessaria nella pratica medica quotidiana, un utilizzo costante dell’induzione e deduzione in versione falsificatoria nei confronti di ogni teoria prodotta dagli studi scientifici , nel senso che teorie, ipotesi o linee guida nel momento del trasferimento sul paziente devono essere accuratamente vagliate allo scopo di rilevarne crepe ed errori, passando dalla medicina basata sulle evidenze (EBM) alla medicina basata sul sospetto e sulla ricerca clinica.
COME AFFRONTARE L’ERRORE MEDICO
Alcuni responsabili del sistema di qualità aziendale di AASSLL si stanno muovendo con l’organizzazione di un sistema di segnalazioni di risk-management ospedaliero nel quale si testa attraverso schede di segnalazione degli eventi (incident reporting ) anonime e spontanee degli operatori un sistema per monitorare i rischi delle realtà operative e individuare strumenti e strategie di gestione .
Tale risk-management fondato su metodi scientifici di raccolta dell’errore medico potrebbe indurre una organizzazione in grado di segnalare le aree di maggior criticità e i fattori umani e tecnologici che determinano più frequentemente l’evento avverso.
Ma questo sistema, a detta degli stessi propugnatori, pur essendo assai puntuale nell’identificazione delle aree specifiche di rischio e scarsamente affidabile per la costruzione di profili di rischio su base statistico-epidemiologica dato che la segnalazione in cartella degli eventi è risultata nella loro sperimentazione solo del 31% (24 ore Sanità sett. 2003)
Una possibile soluzione a questo problema è il ricorso ad altre fonti di informazione quali l’analisi delle complicanze nelle cartelle cliniche, i reclami pervenuti all’URP (ufficio relazioni pubbliche) e di più si potrebbe ottenere con una scheda anonima di segnalazione di soddisfazione da far compilare alla dimissione.
.L’incidents reporting però presenta dei limiti perchè gli errori, così analizzati, sono solo gli outcomes (esiti ) , la punta dell’iceberg, di un processo che in quanto produttore di eventi avversi è un processo difettoso o troppo complesso. L’analisi sulla qualità dei processi invece che sugli esiti renderebbe più facile la discussione di un fenomeno che fatica a venire a galla e inoltre permetterebbe a qualità e sicurezza di essere organizzate assieme ( Vincent C.) . La possibilità di errore infatti aumenta nelle situazioni critiche : quindi analizzare e modificare le situazioni a rischio, attraverso l’identificazione dei setting difficoltosi, dei problemi ad essi correlati e dei near-misses (i quasi errori o errori senza conseguenza clinica) che ne conseguono , anticipa e riduce le possibilità di eventi avversi. Le pratiche di gestione del rischio clinico rientrano in questo modo in una strutturazione della più ampia clinical governance dei processi sanitari che cresce utilizzando i problemi come opportunità e motore di miglioramento della risposta assistenziale.
A seguire vengono elencate alcune delle situazioni critiche nelle quali l’errore è in agguato.
L’ERRORE DI DIAGNOSI
Questo errore è dipendente dalle fonti di informazione, dalla metodologia dell’indagine clinica, da fattori dipendenti dal medico , dal paziente o dal setting di visita.
1) Dipendente dalle fonti di informazione a) incomprensione del malato
b) referti strumentali malpredisposti,errati*o
incompleti o indagini diagnostiche impraticabili
c) diagnosi precedenti incomplete o errate
d) situazione epidemiologica fuorviante
e) cartella clinica o lettere di dimissioni incomplete o
non orientate per problemi e carenti nella mappa
dei rischi clinici
*Nella medicina di laboratorio per esempio mentre l’errore analitico è confinato in percentuali modeste fra il 7 e il 14% , nelle fasi pre- e post-analitica si osservano percentuali di errori ben più rappresentative e variabili fra un minimo del 32% ed un massimo del 68,2% (Plebani 2000).
2) Dipendente dalla metodologia dell’indagine clinica
a) visita affrettata per scarsità di tempo
b) anamnesi ed esame obiettivo incompleti
c) visita troppo precoce
d) disattenzione ai sintomi discordanti
e) disattenzione ai red flags (segni o sintomi di allarme per patologie urgenti o gravi)
f) mancato approfondimento del problema con controlli, esami o consulenze
g) assenza di monitoraggio nel tempo
h)strumentazione da ambulatorio non pertinente
i) riferimento a modelli di malattia statici e non probabilistici
l) cattivo uso della logica deduttiva
3) Dipendente dal medico a) stanchezza per il troppo lavoro ( turni prolungati o gravosi, pochi
riposi etc.
b) stato di stress psicologico (burn out)
c) indisponibilità o eccesso di empatia (mancanza della giusta
distanza emotiva)
d) deficit visivi, auditivi e altri deficit
e) incapacità di strutturare un rapporto
collaborativo (empowerment)col paziente
f) differenza culturale
g) aggiornamento insufficiente, bagaglio o riferimenti culturali obsoleti ( i testi di medicina clinica dovrebbero essere eliminati dopo 7- 10 anni dalla data di pubblicazione)
h) atteggiamento autoritario o acquiescente
i) tendenza a dare valutazioni al di fuori della
propria competenza
l) incapacità a costruire dei percorsi diagnostici
terapeutici integrati con gli specialisti
m) poca propensione a seguire le linee guida
presenti in letteratura o adesione rigida alle stesse
n) inesperienza (assenza di tutoraggio per i neolaureati)
o) rarità della malattia o poca consuetudine al suo trattamento
4) Dipendente dal paziente a) ipocondriaco
b)depresso o ansioso
c) svalutante (per personalità o per rapporto di
fiducia compromesso)
d) con rapporto affettivo preesistente (parenti o amici)
e) con incomprensione linguistico-culturale
f) con disturbi della memoria
g) con bassa scolarità
h) non collaborante (passivo)
i) paziente non noto
l) privo di documentazione clinica
Il bias emozionale e la strutturazione del rapporto a due
Già dagli anni cinquanta Balint nel suo interessante percorso scoprì che il farmaco più frequentemente usato in medicina generale era il medico stesso ma che fosse inquietante constatare l’assenza completa di letteratura su controindicazioni, effetti avversi precauzioni d’uso di tale farmaco.(9)
Nella situazione attuale di evoluzione verso la patient-based medicine (Federspil) una corretta strutturazione del rapporto tra medico e paziente è quantomeno necessaria.
Il rapporto medico-paziente è un corpo a corpo ( Michek Sapir: Soigement-soignè, le corps a corps) e la visita fisica è uno strumento di contatto che necessità di una giusta distanza affettiva.
I binari del proprio lavoro sono spesso gli strumenti più utili ad una giusta distanza: di luogo (ambulatorio,camice, pazienti in attesa, infermiera, etc), di tempo ( orari, appuntamenti,disponibilità a termine) , di equipe (consulenza, passaggio in cura, esami, etc).
Il paziente provoca nel medico le emozioni più varie , ciò rientra nell’alveo del rapporto empatico necessario alla cura ma è importante che queste emozioni ( il trasfert) siano riconosciute e gestite dal medico per capire cosa a sua volta trasmette .
La perdita della giusta distanza o l’onesta ammissione del proprio status psicologico personale di non riuscire a gestire l’irritazione o l’ansia di certi pazienti e di certe situazioni consiglia la delega della cura ad altri che possano seguirli più tranquillamente senza pregiudiziali.(7)
5) Dipendente dal setting a) presenza di un famigliare non idoneo
b) consulto in luoghi non idonei (bar, telefono, per strada,
in corridoio, etc.)
c) sede di consultazione disturbata (rumore, interruzioni etc)
d) sala d’attesa piena
e) presenza di tirocinanti o infermiera
f) accoglienza non cortese
ELEMENTI DI CRITICITA’ NELLA TERAPIA
(ERRORE DI COMPLIANCE FARMACOLOGICA)
Solitamente su una visita di 20 minuti, meno di un minuto viene dedicato al comunicare ai malati i dati relativi alla loro malattia e al trattamento proposto (viv da medico)
Le conseguenze di questo comportamento dei medici sono che il 50% dei malati non comprende la durata della terapia , il 23% lo scopo, il 17% la frequenza.
Assai di rado poi sono analizzate col paziente le possibili interazioni o effetti collaterali
1) per particolarità individuali
a) sensibilità di metabolizzazione al farmaco (anziani, bambini, polipatologia )
b) allergie e/o intolleranze
c) interazioni farmacologiche (politerapia)*
Si è calcolato che la frequenza di una reazione avversa da farmaci è pari al 6% quando vengono assunti 2 farmaci, al 50% quando vengono assunti 5 farmaci e di circa il 100% quando vengono assunti 8 o più farmaci (Pellegrino)
2) per particolarità sociali o psico-fisiche a) incomprensione delle modalità di assunzione
I) disturbi della memoria
II) incomprensione linguistica
III) ansietà nel momento delle spiegazioni
IV) spiegazioni troppo tecniche
V) posologia troppo complessa
VI) posologia non scritta
b) incapacità psicofisica ad una assunzione corretta
c) assenza di care-givers (famigliari disponibili)
d) depressione
e) crisi del rapporto fiduciale (non convinzione della diagnosi o della terapia prescritta, approccio sentito come farmacologicamente aggressivo, disinteresse degli stili di vita del paziente , etc.)
f) farmaci non mutuabili o soggetti a ticket
g) paura di perdere il controllo della propria vita
h) problema non risolvibile dalla sola terapia farmacologica
ERRORE DI DISEASE MANAGEMENT
(errore di gestione della malattia)
insufficiente addestramento dei famigliari o del paziente ( empowerment )
mancata alleanza e collaborazione con i famigliari o con il paziente( patnership)
insufficiente addestramento del personale paramedico o personale nuovo
mancata considerazione degli handicaps del paziente (scolarità bassa, ansietà, età avanzata, solitudine, scarse possibilità economiche, etc.)
relazioni insufficienti con gli specialisti consulenti o con il personale paramedico
ignoranza dei tempi di attesa di consulenze o esami
ignoranza della qualità di consulenze o esami
8) indisponibilità ai contatti in caso di necessità
ERRORE DI ORGANIZZAZIONE DI SISTEMA
E’ divisa in macrosistema che è l’assetto del Servizio Sanitario Nazionale e regionale e sistemi aziendali che comprendono l’organizzazione del servizio locale erogato,la strutturazione delle interazioni e delle collaborazioni che qui vengono analizzate.
difficoltà di accesso a esami o consulenze per orario o per le liste di attesa
carico di lavoro eccessivo ( le carenze di staffino e una turnazione prolungata sono la prima causa di incidenti in sanità con circa il 36% di errori in più(5)
mancata trasmissione tra medici di informazioni o informazioni incomplete nel momento di passaggio del paziente
a)scrittura illeggibile o per abbreviazioni
b) chiarezza insufficiente della logica della prescrizione
c) prescrizione imprecisa o incompleta
non chiarezza su ruoli o responsabilità
mancata presa in carico assistenziale o per il completamento diagn.-terap.
prescrizione acritica di esami o farmaci
non esecuzione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche
mancato monitoraggio sia in fase di malattia che in stato di benessere (screening)
percorsi assistenziali inesistenti o malorganizzati
ridotto lavoro o confronto in equipe ( audit clinici , gruppi operativi integrati )
mancata strutturazione della verifica di qualità e della sicurezza
modificazione recente di organizzazione e mancata informazione agli operatori delle variazioni
mancato sviluppo degli indicatori di performance , di qualità e di sicurezza
mancata partecipazione dei cittadini nella progettazione delle attività sanitarie
assenza di una formazione continua strutturata e mirata
gestione economica irrazionale
rilevazione dei bisogni sanitari insufficiente
circolarità complementare non praticabile fra servizi e operatori per le urgenze
ERRORE ETICO
accanimento diagnostico o terapeutico su patologie o classi di età poco suscettibili di miglioramento
mancata presa in carico per patologie irreversibili
incapacità a prospettare gli obiettivi positivi raggiungibili
mancata comunicazione dei rischi benefici di un intervento diagnostico o terapeutico *
mancata comunicazione breve sui comportamenti a rischio
mancata comunicazione strategica nei soggetti disponibili a modificare i propri comportamenti a rischio,
mancato invio a consulenza o luogo di cura più idoneo alla migliore risoluzione del problema e mancata informazione sull’inadeguatezza di una struttura.
non conseguimento degli standards di qualita’ delle cure previste per ogni patologia
spreco di risorse pubbliche e private
non rispetto della privacy
tagli di risorse indiscriminati
conflitto di interessi con la salute del proprio paziente
non comunicazione degli effetti avversi (ADR) da farmaci
Dire la verità al paziente
Una comunicazione troppo schietta sui margini di errore provoca certamente ansia, incertezza, perdita di controllo, perdita di fiducia e questo ha rappresentato uno dei motivi per cui il medico è stato sempre restio a fornire spiegazioni troppo esaustive o difficile comprensione.
La presenza di questi problemi però non giustifica la mancanza di consenso informato ma solo una diversa strategia di comunicazione .
E’ stato valutato in contesti sperimentali come la diversa modalità di presentazione, definita come effetto cornice, modifichi l’accettazione di una procedura o più in generale le decisioni dei pazienti; ad esempio lo stesso rischio può essere presentato in termini di sopravvivenza oppure di mortalità con grande differenza della percezione.
Un analisi attenta del rischio clinico individuale supportata da un’indagine famigliare e sociale di tutti gli elementi che possono pesare nella ponderazione di un rischio e la collaborazione di una scelta così importante per il paziente conducono ad una presa in cura globale che può influire positivamente sugli esiti dell’intervento e potenziare le sue possibilità di reagire agli imprevisti.
Conclusione
Nessun medico , a prescindere dalla sua preparazione, può dirsi immune da contestazioni relative ala sua condotta professionale e anche se è convinto di avere agito nell’interesse del paziente, questi o la sua famiglia possono non essere dello stesso avviso ( 6)
I principali elementi che più spesso provocano una causa per negligenza professionale sono 1) un risultato poco felice, 2) un onorario ritenuto eccessivo o non dovuto ( specialmente con lo sviluppo dell’attività libero professionale) , 3) una relazione medico-paziente insoddisfacente (6), 4) una mancata presa in cura globale, 5) un ritardo del trattamento più congruo.
Richard Smith ha affermato che in medicina le situazioni che si possono basare su dimostrate prove di efficacia si attestano al 15%; oggi si stima queste giungano al 30% ma comunque un buon 70% resta nel regno dell’ incertezza ; diminuire le aspettative nei confronti di una medicina mitica diventa perciò una priorità urgente (Perraro Qa 2005) quanto trasformare il medico in un critico conoscitore delle teorie in voga e in un attento ricercatore clinico nei riguardi del proprio paziente.
La comunicazione al paziente e alla sua famiglia dell’incombenza dell’errore nella pratica medica produrrebbe alcuni effetti benefici 1) una collaborazione più efficace, 2) una umiltà fra gli operatori fonte preziosa di accuratezza e ascolto 3) una riduzione dello spreco sanitario ( lo studio Steward (2000) dimostra che una medicina più centrata sui bisogni e le aspettative del paziente migliora l’efficacia delle terapie e riduce il numero di tests diagnostici e terapie del 50%) 4) una riduzione delle cause di malpractice.
1) La condizione post-moderna . 1979 Jean-François Lyotard
2) Scienza e filosofia Karl Popper 1969 Piccola biblioteca Enaudi
3) La medicina di fronte alla sfida antropologica. Dietrich von Engelhardt 1993 Arco di Giano n1
4) The new England Journal of Medicine 2004; 351:1838-1848
5) Vivere da medico . Alpert/Wittemberg 1988 ,Il pensiero scientifico editore
6) Principi di Metodologia clinica . Austoni, Federspil 1975 Cedam PD
7) Le mèdecin , son malade e la maladie ; Balint 1957
Luciano Mignoli, medico di famiglia tutor e già animatore di formazione regionale del Veneto